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Lettera privata di Frau al presidente dell’I.I.P.P. prof.ssa Bietti Sestieri (10 dicembre 2004)

venerdì 21 gennaio 2005

LETTERA PRIVATA CHE AVEVO INVIATO ALLA DIRETTRICE DELL’ISTITUTO ITALIANO DI PREISTORIA E PROTOSTORIA (PER SPIEGARLE LA GENESI DELL’APPELLO DEI SARDI).

10 dicembre 2004

Gentile Professoressa Bietti Sestieri,

con amarezza sono costretto a chiederle un po’ del suo tempo per cercare di risolvere insieme la spiacevole situazione che si è venuta a creare e che rischia di striare di ottusità oscurantista l’immagine dell’Istituto da Lei diretto con tanta passione e serietà. Mi chiamo Sergio Frau e sono un giornalista di Repubblica. Di questo quotidiano sono uno dei fondatori e oggi ne sono inviato per i temi culturali. Vent’otto anni di lavoro e serietà, ormai. E sempre sotto il controllo di un pubblico che, dal giornale, abbiamo visto crescere man mano fino agli attuali 750 mila lettori. (Fatti miei, certo. Ma, vedrà, in parte anche suoi, ormai...). Ebbene: questo lavoro mi ha costretto a fatiche entusiasmanti. La più gradevole? Prepararmi di volta in volta, con tigna e umiltà, per dover parlare e intervistare specialisti che non solo ne sapevano molto più di me, ma che via via mi hanno affidato spezzoni delle loro vite o resoconti di loro ricerche, di cui io avrei dovuto poi fare cronache e sintesi. Un rapporto di fiducia che penso proprio di non aver mai tradito. E di questo vado fiero.

È stato il mio, finora, un fantastico Grand Tour, che mi ha permesso di ascoltare con incontri ravvicinati, gente come Antonio Cederna, Federico Zeri, Massimo Urbani, Pierluigi Cervellati, Edgar Morin, Dario Fo, Giuseppe Sinopoli e - per avvicinarmi di più al suo campo d’azione - personaggioni come Sergio Donadoni, Giovanni Lilliu, Andrea Carandini, Francesco D’Andria, Stefano De Caro, Christiane Deroches Noblecourt, Jean Pierre Mohen, Jean Yves Empereur, Nikos Stampoulidis, Lorenzo Braccesi, Margherita Asso, Doudou Diène oltre a cento altri operatori culturali (soprintendenti, restauratori, archeologhi, ...) di cui avevo già stima prima di conoscerli, e che, poi, conoscendoli meglio ho considerato come esperienza preziosa. Preziosa e anche formativa del mio modo di vedere le cose e i problemi che riguardano il paesaggio, il nostro patrimonio d’arte, il mondo antico e la sua gestione.

Avrei pagato io per sentirli: invece mi hanno sempre pagato...Tutta questa lunga premessa (che, però, ha dovuto riassumere un’intera vita di lavoro scrupolosissimo e - grazie a Dio - riconosciuto finora come tale) per arrivare all’oggi: alla grottesca "scomunica" che profittando del pulpito dell’Istituto da Lei diretto, mi è stata scagliata addosso in forma di "Appello agli studiosi di scienze dell’antichità del mondo mediterraneo" da un drappello promotore, assai variegato, con pubblica lettura, sabato 27 novembre. Ho avuto modo di prenderne visione - secretato com’è, per ora - solo due giorni fa.

Mi spiace dover essere proprio io a dirglielo, ma vi siete lasciati coinvolgere - con imbarazzante leggerezza - in un gioco sporco assai, avviato e condotto con tronfio cinismo sia verso di me che verso di voi. È stato - quello sparato dai vostri microfoni - un vero e proprio "regolamento di conti" (vecchi di anni) che si è saldato a invidie nuovissime e ad altre miserrime difese corporative di appalti e prebende. Una aggressione - per certi versi anche un po’ inquietante - che, vedrà, non fa onore né a chi l’ha organizzata e neppure a chi, come voi, se ne è fatto inconsapevole cassa di risonanza.

L’occasione l’ha fornita una mia ricerca sull’esatta posizione delle prime Colonne d’Ercole, pubblicata nel 2002 con il titolo "le Colonne d’Ercole, un’inchiesta", giunta alla VI ristampa e corroborata fin dalla prima edizione da postfazioni di Maria Giulia Amadasi Guzzo, Lorenzo Braccesi, Sergio Donadoni, Sergio Ribichini. Argomento rischiosissimo, quello delle Colonne... Devastante, poi, avere un dubbio nato dalla geologia marina e accorgersi che da 22 secoli - dalle rivoluzioni geografiche alessandrine - quel dubbio non era mai venuto a nessuno. Mille verifiche, mille controlli, mille cautele: tutto pressoché normale per uno che con la serietà e lo scrupolo professionale ci campa. Un anno e mezzo di pausa al giornale - rinunciando allo stipendio - per gettarmi a corpo morto negli ultimissimi confronti. Ne sono uscito bene, però: era proprio così! Le "prime" Colonne d’Ercole raccontate con bassi fondali (da Aristotele) e descritte come più vicine alla Grecia che la fine dell’Adriatico (da Dicearco), all’inizio - per un periodo, tra V e fine III secolo - erano lì al Canale di Sicilia dove Omero metteva tutti i suoi mostri e dove ancor oggi muoiono centinaia di disperati cercando di arrivare da noi, "terra promessa".

Il libro - presentato come una "Lettera Aperta ai Sapienti": un’ipotesi assai ben documentata su cui riflettere, con ben 1792 punti interrogativi e parecchie risposte sottoposte al lettore con umiltà (ha presente l’umiltà?) - in questi due anni ha ricevuto molti autorevoli consensi. Alcuni entusiasti. Li potrà trovare nel catalogo "Atlantikà" che le invio e che è servito ad accompagnare una mostra documentaria di fotografie sulla Sardegna che ha ricevuto il patrocinio dell’Unesco (annunciatomi a sorpresa, il giorno dell’inaugurazione dal professor Attilio Mastino, prorettore dell’Università di Sassari e incaricato dell’ambasceria dal professor Mounir Bouchenaki, direttore generale per la Cultura dell’organismo transnazionale) e che - vivaddio - sta piacendo molto anche a persone assai "difficili". Luciano Canfora per l’Ellenismo, Andrea Carandini per una visione dell’Occidente, Salvatore Arca direttore della Scuola Superiore di Scienze Geografiche dell’Istituto Geografico Militare, Mario Tozzi (geologo del Cnr), e tanti tanti altri specialisti, hanno trovato assai giustificato quel mio dubbio che non solo "normalizza" il Mediterraneo degli Antichi ma quadra bene con le fonti e, pure, risolve molte incongruenze di testimoni eccellenti.

Uno per tutti: Erodoto, il quale - ricordiamolo - giura ben tre volte di non sapere come finisca l’Europa ad Occidente e che - trascinato a forza al di là delle Colonne di Gibilterra - veniva tradito con una "sua" Tartesso in Andalusia, proprio lì dove finisce l’Europa in Occidente... Nell’analisi delle antiche testimonianze mi è capitato di imbattermi anche in Platone e nella sua Isola di Atlante. Uso "Isola di Atlante" proprio per non finire nella fanghiglia di Atlantide, l’Isola delle Fantasticherie assai malfrequentata (e già trovata 7.000 volte da 7.000 libri), che considero quasi un incidente di percorso nella mia rotta di ricerca: ho, infatti, sempre nutrito una forte ripugnanza per gli enigmi. Qui però, non di enigma si trattava ma di un semplice malinteso: ben criptato da mappe "recenti", alessandrine, a confondere il tutto, ma pur sempre un malinteso.

L’Atlantide fuori da Gibilterra - si sa - gemella chiunque la nomini con ufaroli ed esoterici. L’Isola di Atlante che è riapparsa a sorpresa dalla mia inchiesta appare come tutt’altra cosa: affratella la Sardegna al Caucaso del "Prometeo incatenato" di Eschilo e con quell’Oriente anatolico assai presente nell’isola fin dal V millennio a.C. che esplode poi con la ziggurat di Monte d’Accoddi del III millennio. Due fratelli disgraziati, insomma, messi lì a segnare con i loro supplizi - a Est Prometeo e a Ovest Atlante - quella cosmogonia greca costruita lungo la rotta del sole che aveva Delfi a far da Centro.

Ebbene le fonti antiche sulla "Grande Isola d’Occidente" - Omero con la sua Scherìa "lontana lontana nel Mar d’Occidente”; Platone con la sua Isola di Atlante che governa l’intera Tirrenìa; Esiodo con le sue "Isole Sacre" rette dagli illustri Tirreni - mi hanno convinto a varare due ricognizioni in Sardegna (una nel 2003, l’altra nel Settembre 2004) con équipe di altissimo livello formate da antichisti italiani e stranieri e geologi di grande serietà: si trattava non solo di far conoscere ad addetti ai lavori (che da sempre ragionano sul mondo antico) un’isola che nel II millennio a.C. era un portento di vita, e che però poi nel I, sopraffatta da malaria e da chissacché, si fa "conquistare" da drappelli di Fenici, ma anche chiedersi - tutti insieme, ragionando in libertà - se quello "Schiaffo di Poseidone" di cui parla Omero, quei cataclismi narrati da Platone come causa della fine, avessero riscontri geologici nell’isola.

Le faccio i nomi. Nel 2003 c’erano: Maria Giulia Amadasi Guzzo (Docente di Epigrafia Semitica all’Università la Sapienza di Roma); Lorenzo Braccesi (Docente di Storia Antica all’Università di Padova); Vittorio Castellani (Astrofisico alla Normale di Pisa, archeologo e Accademico dei Lincei); Claudio Giardino (Archeologo specializzato in metallurgia antica, docente all’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli); Mario Lombardo (Docente di storia e letteratura greca e archeologo all’Università di Lecce); Kostas Soueref (Archeologo della Soprintendenza di Salonicco, Grecia); Benedetta Rossignoli (Ricercatrice e saggista dell’Università di Padova). In qualità di osservatori: Massimo Faraglia (già responsabile dell’Archivio di Repubblica) e Reynaldo Harguinteguy (Funzionario Unesco/ animatore culturale). Può leggere le loro riflessioni (insieme a quelle del geologo del Cnr, Mario Tozzi) nel libro "Atlantikà" che le invio.

Quest’anno - oltre ad Amadasi Guzzo, Giardino, Ribichini - c’erano anche Azedine Beschaouch, (Accademico di Francia, archeologo, con noi per conto dell’Unesco); Isa Boccero (direttrice del Museo del Sannio); i geologi del Cnr Davide Scrocca e Vincenzo Francaviglia (Nuove tecnologie per i Beni Culturali); Antonello Petrillo (docente di sociologia all’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa), Oya Barin (attaché culturale dell’Ambasciata di Turchia a Roma), Carlo Zanda de "La Stampa" e Daniela Fuganti di "Archeo". Aver suscitato il loro interesse è per me fonte di orgoglio.

Dell’intervista rilasciata dall’Accademico di Francia, Azedine Beschaouch, al termine di questa nostra ultima ricognizione, in cui si invita ufficialmente la mostra "Atlantikà" a Parigi per essere presentata nella sede dell’Unesco con un convegno d’inaugurazione, le allego fotocopia, estraendone un’unica frase, data in risposta alla domanda dell’intervistatore dell’Unione Sarda, Mauro Manunza, che chiedeva: "Come lei saprà, qui (in Sardegna, ndr) il libro di Frau ha incontrato molto favore nel mondo accademico ma fredda ostilità negli ambienti archeologici governativi...". E Beschaouch: "Una cosa sia chiara: questo libro ormai non è più sardo né italiano. Adesso è sul piano superiore della ricerca e della cultura universali. Il problema non riguarda le polemiche in Sardegna, ora abbiamo qualcosa di livello ben più alto. Alla luce di questo libro possiamo andare avanti. Dopo questo libro non è più possibile tornare indietro". E’ una delle centinaia di attestazioni che ho ricevuto, certo una delle più gradite. Capisce, ora, da dove mi arrivano gli anticorpi per resistere alle punture di fiele e bile come quest’ultima scomunica ridicolmente "sacralizzata" dal vostro pulpito? Per aiutarla a comprenderne la genesi le riporto qui per intero, invece il messaggio che lo stesso Accademico di Francia ci ha inviato appena ritornato a Parigi: "Caro Sergio, cari sindaci, cari colleghi, arrivando a Parigi ho subito sentito una grande nostalgia... Vorrei anzitutto ringraziarvi per quest’amichevole accoglienza e per la "sinfonia" prodotta. L’incontro è stato veramente un simposio socratico, un convegno itinerante e un sym-bolo. Bravo a lei e a tutti i colleghi. Dobbiamo fare tutto per la salvaguardia dello spirito della civiltà sarda e della diversità culturale dell’Isola Mito. La specificità e la ricchezza nuragiche sono stupende e davvero fanno parte delle meraviglie del mondo. Un saluto particolare al mio monumento preferito, il s’Uraki, che bisogna conservare nello stato in cui è, senza toccare la sua autenticità e la sua anima. La prego di non dimenticare questa raccomandazione speciale. Grazie di nuovo a tutti e per tutto... Azedine Beschaouch".

Stiamo arrivando al dunque: la raccolta di firme nasce a sorpresa solo ora - a sorpresa, a quasi due anni dall’uscita del mio libro (che, noioso com’è, solo in Sardegna ha venduto finora 10.000 copie, dimostrando di aver superato un controllo sociale assai affidabile se si ha stima nel pubblico) - e nasce solo ora proprio per tentare di bloccare sia la presentazione della mostra "Atlantikà" a Parigi, che la libera circolazione delle idee nell’isola. Se l’intervista dell’Accademico di Francia può aver suscitato qualche invidia in Sardegna (soprattutto in gente che non ha mai pubblicato nulla), proprio quest’altro suo messaggio ha suscitato le reazioni di uno studioso locale che - abbiamo saputo dopo - proprio il nuraghe s’Uraki (sepolto da rovi e cespugli fino a un incendio che l’estate scorsa l’ha "scoperto", tanto da poter essere fotografato e presentato nel libro alle pagine 46/47) sta studiando da ben 24 anni senza aver mai avuto tempo e modo di pubblicarlo come si deve, visti i ritmi che il suo lavoro di impiegato comunale gli impone. Ora però, che sono in arrivo nuovi finanziamenti - un quarto di milione di euro, si dice in zona - vale la pena di mettersi sotto a scrivere... E lui lo sta facendo, sì, ma tempestando di lettere giornali, studiosi e colleghi, in modo che quell’appalto arrivi a chi di dovere: cioè a lui, direttore degli scavi.

Le parole del professor Beschaouch - regalate con l’esperienza di uno che per più di dieci anni ha diretto la Sezione del Patrimonio Mondiale dell’Unesco - certo non nascevano per guastargli la festa: miravano piuttosto a suggerire agli amministratori locali un ritmo "narrativo" a un territorio come quello sardo che - con le sue diecimila torri - può rischiare di apparire ripetitivo a chi non lo sa leggere con gli occhi giusti: in pratica il professore - che sa bene quel che tutti gli archeologhi più moderni ormai dicono, essendo archeologo lui stesso. E che cioè: meno si scava meglio è, visti i passi da gigante che stanno facendo le nuove tecnologie e le sorprese che ci potrebbero fornire in un prossimo futuro - consigliava in quel suo messaggio ai 38 sindaci del Sinis-Barigadu-Montiferru che - Padroni di Casa - avevano sponsorizzato la nostra ricognizione, di non esagerare con i cantieri archeologici: regalano soldi in giro, certo, ma un territorio come il loro, già dotato di meravigliosi mastodonti di pietra quasi intatti (uno per tutti: il Nuraghe Losa), può permettersi di lasciare alcune zone ricche di reperti non scavate né restaurate dove ancora poter godere le suggestioni del tempo trascorso e le usure che ha portato.

Quel nuraghe citato poi - il s’Uraki - mezzo coperto dal fango nel suo lato verso il mare, e imponente quasi intatto nel suo lato a monte, ha - se non è stato già sbancato in questi giorni - una sua tragica e suggestiva potenza, facilmente verificabile da chiunque si rechi in zona, vista la sua posizione sulla strada che conduce a San Vero Milis. Questo, insomma, il "sacrilegio" che ha dato il via a una campagna a difesa dello sbancamento e dell’appalto che servirà a realizzarlo. Una campagna vecchio stile contro di me: fatta di lettere e veleni, di fango e calunnie, di sbeffeggiamenti e raccolta firme che, ora, ha appena usato voi - pulpito eccellente - per farsi sentire meglio e cercare di trasformare un’ingorda difesa corporativa firmata per lo più da dipendenti di soprintendenza , in "scomunica scientifica". L’unico modo per riuscirci - visto che la squinternata rilevanza delle prime 50 firme raccolte - era usare voi e la vostra credibilità. E l’hanno fatto.

Per renderla, poi, un’arma più affilata - dopo aver tentato di rendere caricatura la mia ricerca (una perla tra tante: "le cosiddette" Colonne d’Ercole...) - dal libro si è estratta soprattutto la parte in cui riporto i brani di Omero e Platone che attribuiscono a cataclismi marini la fine della loro portentosa isola occidentale. Omero, ricorderà, parla di "Schiaffo di Poseidone". Platone ci dice che Zeus inviò catastrofi per rendere migliori gli abitanti dell’isola, ormai troppo superbi. La Sardegna ha, a percorrerla nel suo centro, quel canyon che milioni di anni fa era mare: oggi dopo possenti invasioni marine (ammesse da sempre da tutti i geologi) si chiama Campidano. Lì dentro un maremoto si è spalmato sull’altro, fino a farne una tavola di fango rappreso con tanto di laghetti salati a livello del mare. Talvolta sotto il fango (per lo più marne argillose) capita di trovare reperti come Barumini o il Nuraghe di Villanovaforru: due giganti che hanno restituito tanta roba del XII secolo a.C. da riempirci musei.

Io il dubbio che ci sia stato un evento traumatico ce l’ho. Né me lo tolgono o mi spaurano le firme che - proprio grazie al vostro appoggio e al vostro autorevole quanto superficiale imprimatur - la "scomunica" potrebbe ottenere in giro d’ora in poi. Sicuri che non sia successo nulla del genere? E voi, lì all’Istituto, per ora, che ne sapete? E anche: perché dovrei fidarmi di resoconti di studiosi locali che su questo punto non ritengo attendibili, visto che hanno da sempre celato (o, almeno, sottovalutato) quanta architettura nuragica fosse posizionata sulle coste sarde, come a blindarle? E perché non avrei dovuto chiedere il parere a geologi di chiara fama? Solo perché loro, finora, non l’hanno mai fatto? Grottesca situazione, ammetterà...

Del resto, proprio per questo - per verificare con serietà scientifica se le parole degli Antichi erano solo fantasie, o se invece nascondevano lontane memorie - una volta finito il libro, dove peraltro del cataclisma appena si accenna, l’avevo fatto avere a Mario Tozzi del Cnr, un geologo che già stimavo pur senza conoscerlo. Lui si è appassionato a quel mio dubbio: ha fatto sopralluoghi mirati e persino una trasmissione vista da un totale di sei milioni di persone. I miei punti interrogativi sono diventati anche suoi. (Nel libro che le invio c’è il progetto dettagliato di Tozzi per un’indagine geologica sul campo).

Conclusione? Servono ormai indagini geologiche mirate per verificare se lì un disastro è potuto accadere o no. Anche per questo - nella seconda ricognizione interdisciplinare di quest’anno - erano presenti quegli altri due geologi del Cnr che hanno trovato assai interessante il problema di queste "due Sardegne" diversissime tra loro: una, quella in alto, dove il mare non può arrivare, dai Nuraghe intatti; l’altra - quella delle piane - con centinaia di torri intrappolate o addirittura seppellite dal fango.

Non interessa loro? Fatti loro. Interessa me e molti, molti altri. Tanto è vero che questa mia ricerca - con tutti i suoi dubbi ancora da sciogliere - ha poi fatto da calamita a professionisti di mille tipi. Uno, Francesco Cubeddu - premio nazionale di fotografia aerea - grazie a foto scattate dal suo parapendio, ci ha permesso di presentare in mostra (per la prima volta!) una documentazione eccezionale di decine e decine di nuraghe inglobati dal fango del Sinis (vedi catalogo Atlantikà). Tra questi anche il Nuraghe s’Uraki, su cui sembrerebbe vietato ragionare in libertà.

Cara professoressa, comincia a venirle qualche dubbio? Non ancora? Guardi i fatti. Scientificamente... Tra un Accademico di Francia che la sa lunga sulla gestione culturale dei siti e mette nero su bianco un concetto così: "Il vostro territorio è bellissimo com’è, valorizzatelo!", e un archeologo/impiegato comunale che sta aspettando centinaia di migliaia di euro per mettersi al lavoro e tirare a lucido un altro dei mille nuraghe lì in zona, dov’è - dove può essere mai? - l’amore disinteressato? E dove può nascondersi "l’interesse privato in atti scientifici" se non in chi vede minacciati i propri poteri assoluti ben sedimentati (e relativi equilibri) dall’arrivo in "zona loro" di studiosi di fama internazionale? Altro che salvaguardia del rigore scientifico, questa...

"E’ un giornalista... Faccia il giornalista!" così, con la spocchia dei cretini, era stato liquidato (in pubblico e in privato) il mio libro da alcuni firmatari dell’appello. La pensa così anche il suo Istituto? Nonostante le conferme arrivate? Sarebbe assai triste... Eppure l’ipotesi che ci sia stato un forte pregiudizio corporativo dietro la copertura/avallo che avete appena fornito a questa cialtronata, si fa più realistica vedendo per bene le firme promotrici dell’anatema che mi riguarda. Più della metà dei nomi appartengono a dipendenti della Soprintendenza di Cagliari e Sassari. Lei ha verificato se tutta quella gente che ha firmato quest’appello (nato nella Soprintendenza di Cagliari, come la lettera di Alessandro Usai dimostra), l’ha fatto in totale libertà? E che non ci siano state pressioni di sorta su firmatari che con la Soprintendenza sono costretti a lavorare e a fare i conti? E chi ha firmato - all’inizio e anche dopo - l’ha fatto con vera cognizione di causa? Quindi dopo aver letto il mio libro? Se ne è accertata?

Non è più pensabile, oggi, che una raccolta di firme venga utilizzata - come ai tempi del maccartismo - per fare la conta dei fedeli o, peggio, per intimorire studiosi "rompiscatole" in modo che si sentano indesiderati in zona. Ma, certo, il sospetto qui non è da escludere... Soprintendenze di Cagliari e Sassari e una certa etruscologia (che tra i firmatari appare in ordine sparso, ma comunque legata in modo più o meno soffocante alla corte di Mario Torelli) appaiono i registi della raccolta. Un pool di cervelli che può anche far impressione, certo. Molti di loro firmano qualcosa di pubblico per la prima volta. Capisco che il suo Istituto si sia affrettato a conceder loro l’imprimatur...

Ebbene, professoressa, sappia che proprio con questi due gruppi sto pagando oggi - adesso che grazie a voi se ne è presentata la possibilità - la "colpa" di aver fatto in un passato assai recente il mio lavoro di cronista con il rigore che la nostra professione ci impone. La Soprintendenza di Cagliari - e s’informi, se non lo sa! - è, grazie al suo Soprintendente Santoni Vincenzino, la vergogna delle Soprintendenze italiane.

(Soprintendenze che - s’informi - decine e decine di volte ho difeso. Pensi che l’ho fatto persino quando si è trattato di dar voce ai lamenti di archeologhi e storici dell’arte, che - sopraffatti dallo strapotere Fiat, in occasione della mostra di Palazzo Grassi "I Greci d’Occidente" - erano stati costretti a far viaggiare fino a Venezia - e a quel raccapricciante Barnum messo in piedi da Gae Aulenti - pezzi fragilissimi come l’affresco staccato del Tuffatore di Paestum. Le allego l’articolo). Tornando alla "non" Soprintendenza di Cagliari, "regista" o "coregista" della scomunica, me ne sono dovuto occupare quando - dopo quasi dieci anni di attesa e di lavori impiegati a smontare il vecchio fascinosissimo museo allestito dal Taramelli - fu finalmente aperto il Museo Archeologico della città per le cure di Carlo Tronchetti e la responsabilità di Santoni Vincenzino, appunto.

Un museo cretino, lo posso pensare? Lo posso dire? Lo posso scrivere? Comunque, è agli atti, perché l’ho fatto: ma solo dopo averlo visitato con Giovanni Lilliu (costretto, con i suoi 86 anni di allora, a farsi a piedi le quattro rampe di scale per arrivare nell’ufficio di Santoni che, però, dopo averci fatto dire di salire fino a lui, arrivati su ci liquidò - impegnatissimo com’era - dicendoci che aveva troppo da fare e quindi di ridiscendere con Tronchetti, deputato a farci da guida nella visita) e aver constatato il disastro combinato là dentro. Non un solo raffronto con il resto del Mediterraneo vi veniva fatto; i bronzetti erano posizionati così in basso che difficilmente li si poteva apprezzare; molti contesti erano stati smembrati in modi irreparabili; le sezioni erano scandite e criptate da nomi in codice tanto da farsi del tutto incomprensibili (o ridicole) a chiunque archeologo sardo non fosse (tipo: Bonu Ighinu 1; Ozieri 3...). Il tutto, poi, senza mai una datazione a orientare il visitatore non specialistico, né una mappa a facilitare la collocazione geografica di quei ritrovamenti.

Forse era amore, il mio... Amore deluso! Dopo anni e anni che il vecchio meraviglioso museo era sbarrato, nascondendo ai turisti la grande storia della Sardegna, ora si riaprivano i battenti e ci si ritrovava con un sorta di supponente e lustra "farmacia di antico" che scollegava la Sardegna dal resto del Mediterraneo. Chi ha avuto la fortuna di conoscere il Museo di Gerusalemme sa bene cosa si può fare per collegare le veneri "cicladiche" sarde, a quelle identiche delle Cicladi... Chi conosce il Museo Dappert di Parigi sa bene come si possono presentare al meglio - senza umiliarle - le piccole sculture e come si sarebbero potuti valorizzare i capolavori di bronzistica sarda allestiti invece lì, quasi come un presepietto ignorante.

Libertà di pensiero e di parola, insomma, quella che mi presi allora. Dovere e diritto di cronaca, invece, aver dovuto dar conto degli scempi e dei massacri avvenuti in zona Cagliari e Oristano durante la gestione Santoni: un anfiteatro romano foderato di legno fino a nasconderlo in barba alla Carta di Segesta sulla salvaguardia dei teatri antichi (7000 inutili firme cercarono di proteggerlo); una poderosa necropoli punica come Tuvixeddu, strangolata e ora squartata da operazioni immobiliari consentite dalla Soprintendenza; sbancamenti, scempi e altre scemenze perpetrate a ripetizione senza che il responsabile di tutto ciò pagasse mai il minimo prezzo, se non qualche critica del sottoscritto e di molti altri cronisti attenti.

Diciamocela la verità, professoressa, a Santoni gli è andata sempre fin troppo bene...Il fatto vero è che la Sardegna è assai lontana, un po’ come la Malta di Verre. Ed è così che mezza isola può pagare a carissimo prezzo qualsiasi posizione non riverente nei confronti del potere "assoluto" dei Verre locali. Ora - grazie a voi, alla copertura appena concessa loro, che nei fatti sarà utilizzata come attestato a questi comportamenti - andrà anche peggio: stanno infatti tentando di blindarsi là dentro ed esportare faide, regolamenti di conti e vendette in continente. Ma mica ve lo dicono, però - al momento di farvi firmare - che proprio in questi mesi la magistratura sta indagando sui costi lievitati di cantieri archeologici autorizzati da loro. E neppure quel che scrivono i carabinieri (e che i giornali locali riportano con terribile ritmicità) su recenti furti d’opere d’arte antiche avvenuti nonostante le forze dell’ordine avessero segnalato per tempo e per scritto - e proprio alla Soprintendenza di Cagliari - l’insicurezza di quei capolavori a rischio. (Le allego gli articoli che "L’Unione Sarda" ha dedicato all’inchiesta giudiziaria sui cantieri archeologici e al furto della Pantera scolpita, rubata dalle Terme Romane di Fordongianus).

Ho quasi finito, professoressa: le manca un ultimo tassello per ricomporre il puzzle della sporca avventura in cui è stato trascinato il suo Istituto: l’alleanza con i Pallottiniani di Torelli & C. (ovvero una grossa fetta degli altri firmatari del ridicolo anatema che mi riguarda e che dovrebbe intimorire l’Unesco, me e pure gli studiosi che finora hanno trovato stimolante i risultati della mia ricerca). Qui, con i "Pallottiniani", la mia "colpa" è tutt’altra: è di aver sottolineato con un articolo del 19 aprile 2001 che le allego, la vistosa consonanza di un dogma stabilito da Massimo Pallottino e ripetuto ancor oggi da molti suoi epigoni ("Non è importante sapere da dove vengano gli Etruschi") con un diktat ai docenti fascisti ispirato da Mussolini e pubblicato su "Razza e Civiltà" (Numero maggio-luglio 1941, Anno II dell’Era fascista: "In conclusione: si deve parlare di Razza Italiana o italica. O ario-romana", smettendola con tutti gli altri interrogativi. Parola del Duce...) giusto un anno prima di "Etruscologia", l’opera che lo stesso Pallottino pubblicò dedicandola a Mussolini.

Ebbene: Torelli - all’epoca curatore di una mostra veneziana sugli Etruschi, costruita su quel dogma, tanto che persino le guideall’ingressoeleaudioguide in affitto spiegavano che era sciocco continuare a interrogarsi sulla provenienza degli Etruschi - me la giurò, come fosse lui stesso Pallottino (il quale, peraltro, non nascose mai le sue simpatie di destra) o una sua vedova. Adesso proprio lui - saldandosi al killeraggio dei funzionari sardi e a quel loro bric à brac di firme frustrate - trova modo di rispettare quel giuramento.

Ora, professoressa, sa. Era davvero questa l’operazione che pensava di avallare permettendo che quell’infantile lamentela - "Papà Istituto, lo vedi questo Frau quant’è cattivo e dispettoso che continua a ipotizzare un maremoto in Sardegna senza darci retta? Lo puoi strillare e mettere a posto tu, visto che sta portandoci scienziati da fuori? Lo puoi urlare forte - con la voce grossa dei tuoi microfoni - che a interrogarsi e ragionare sull’antica Sardegna, qui in Sardegna dobbiamo esserci solo noi?" - permettendo che quella ridicola lamentela venisse lanciata dall’autorevole pulpito che dirige? Non posso crederlo. La so persona seria.

So anche, però, che stavolta nei miei confronti non ha usato la proverbiale serietà che di solito usa con ogni coccio che scava e che trova. Ecco, professoressa: per favore, vorrei essere trattato come un coccio. Mi tratti come un coccio: con lo stesso scrupolo che lei usa con i suoi cocci. Quindi: si documenti, s’informi, guardi il contesto, le testimonianze, le valuti per bene anche con quei suoi colleghi che hanno sottoscritto con leggerezza l’appello/scomunica contro di me. Proprio l’autorevole sede da lei diretta gli ha concesso una garanzia di "scientificità" del tutto immotivata che ha indotto a firmare "sulla fiducia". Un linciaggio a cuor leggero, insomma, il vostro... Un anatema per conto terzi!

Sia ben chiara una cosa: io non pretendo assolutamente di aver ragione. (Né mi interessa, affatto, convincere uno per uno tutti i funzionari statali, comunali, antropologi o anche i vari torelli che si aggirano per l’Italia, usando questi loro metodi: ognuno - si sa - cerca la stima di chi stima; così come ognuno ha facoltà di pensarla come gli pare). Quello che, invece, pretendo è di ragionare con serietà e di poterlo fare in tutta libertà. Non credo sia nei vostri intenti di impedirmelo. O no? A pagina 22 del mio libro scrivo, nel mio di appello: "Lettera aperta a gente pronta ad appassionarcisi su, insomma, persino solo su un dubbio. E che è, poi, disposta a ragionarci, a discuterne, a cercare conferme o smentite. O anche conferme e smentite impastate insieme...". Sapesse quanta ne ho trovata, poi...

Come uscirne, ora? Con una vostra autocritica pubblica? Con una lettera di scuse? Con una causa per danni? Io, sinceramente, stimo troppo la vostra categoria per vederla infangata, infettata e rappresentata da queste bande in campo. Paradossalmente, ormai, mi sento quasi "uno di famiglia" e i panni sporchi - in questo caso sporcati, e con cinica determinazione anche nei vostri confronti - andrebbero lavati in famiglia. Certo è, però, che ne voglio uscire pulito e senza macchie addosso. Non ne ho parlato ancora con avvocati che possono proteggermi. Conto, infatti, sul suo rigore e sulla sua onestà intellettuale per riuscire a farlo e uscirne bene. Senza essere costretto a difendermi con metodi vistosi che, probabilmente, mi aiuterebbero a vendere parecchie copie in più, ma che potrebbero danneggiare l’immagine del vostro Istituto e di una categoria di serissimi e appassionati professionisti che ho sempre stimato e difeso non solo con tutto il cuore, ma anche con la professionalità che ho. Confido in una sua sollecita risposta e le porgo i miei migliori saluti

Sergio Frau

Allegati:

a) "Sintesi del concetto di Razza nella dottrina e nel diritto pubblico" di Lorenzo La Via ( da "Razza e Civiltà", maggio-luglio 1941).
b) "Etruschi/Così il Fascismo ne cancellò le origini" di Sergio Frau (da “la Repubblica", 19 aprile 2001).
c) "Sedici indagati all’ombra dei nuraghi" di Maria Francesca Chiappe (da "L’Unione Sarda" 23 settembre 2004).
d) "Fordongianus/Terme poco sicure, visita dei carabinieri" di Nicola Pinna (da "L’Unione Sarda", 23 settembre 2004).
e) "Sardegna, miniera d’antico" di Sergio Frau (da "la Repubblica", 26 giugno 2000).
f) "Paestum: archeologi in rivolta" di Sergio Frau (da "la Repubblica", 3 marzo 1997).
g) Immagini dell’Anfiteatro romano di Cagliari (prima e dopo la copertura "provvisoria" - autorizzata - dalla Soprintendenza, che lo nasconde dal 2000).


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