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Un allegato. Documentazione un po’ tignosa - talvolta ripetitiva - di un’avventura davvero insolita

martedì 30 giugno 2009

L’Isola del Re Nudo...

Qualcuno forse se lo ricorda come finiva l’altra faticaccia su Ercole e sulle sue Colonne...
Queste le ultime 10 righe, stremate:
“Ci fu un ragazzino rompiscatole che se ne uscì, d’improvviso, con: “Il Re è nudo!”.
Il Re era nudo...
Chissà poi, però, lui che fine ha fatto...
Che vita ha avuto...
L’ha avuta?
Sicuro?
Sicuro sicuro?
E sicuro, perché?”.
Un aggiornamento: il Re era davvero nudo!
Non solo: si scoprì, poi, che aveva anche un inizio di rogna, assai ben visibile.
Vergogna grande, da non dire, però.
E altre rogne, in quella sua Corte.
Erano proprio loro, anzi, i Cortigiani, che l’avevano passata al Sovrano.
Ma anche questo non andava mai fatto notare.
Solo a dirlo - a dimostrarlo, lì, che il Re era nudo e che aveva pure quell’inizio di rogna - ci si faceva nemici nuovi, infidi, pericolosi...
Non volevano sentirselo dire, gli Addetti alle Stoffe Reali che quegli abiti giusti - per cui erano stati strapagati - non erano mai esistiti. E neppure le Lavandaie di Corte che, da sempre, campavano fingendo di lavare mantelli di porpora inesistenti. E i Rammendatori, poi... Loro ci campavano bene dicendo a tutti di aver risistemato gli antichi abiti cerimoniali della Tradizione, che il Re però non indossò mai, perché non c’erano mai stati.
Avevano le loro buone ragioni - loro della Corte e tutti i famigli - a non accettare quella scomodissima novità: se il Re fosse stato realmente nudo - come cominciava a dire a voce alta anche la gente, osando - c’era un’intera economia di prebende a rischio e un’intera corporazione di parassiti - succhiasangue, succhiasoldi, succhiatutto - che si vedeva minacciata.
Ci mise poco la Corte dell’Isola a deciderlo.
E sì - quando si accorse che, ormai, gli occhiacci fatti a chi osava toccar l’argomento di quella sovrana nudità, e che persino le loro risatine sbeffeggianti sulla notizia che il Re era nudo, non bastavano più a tener salvo il silenzio - la Corte decise di indire uno dei suoi sabba che la gente normale temeva da sempre: era lì, infatti, che si decidevano quei “pregoni” che nell’Isola hanno sempre tenuto a bada le cose nuove, i problemi e, anche, le sorprese che arrivavano da fuori.
I “pregoni” sono degli aut aut inquietanti, vecchi ed elaborati come il mal’affare. Questo, stavolta, suonava così: “Liberi voi di pensare e dire. Sappiatelo, però, che Noi della Corte - titolari dei permessi, soprintendenti ai sussidi, alle corvées, alle nomine e, quindi, alle vostre stesse vite - non la pensiamo così. Per Noi il nostro Re non è nudo! Non lo è mai stato. Né lo sarà mai. Ve lo diciamo per il vostro bene. E chi lo sosterrà in futuro, ora, sa quel che rischia”.
Tutti, lì in Corte, firmarono.
(Solo qualche saggio se ne tenne fuori).
E siccome, tra i nomi dei firmatari, c’era quello che al Re gli “comprava” le stoffe inesistenti, quello che gli aveva tirato a lucido un antico Anfiteatro per far sfilare - prima o poi - nuovi modelli d’abito, e il Cantastorie che il Re lo cantava sempre elegante, e i Maestri delle Pietre costruttori delle Sovrane Sartorie, e gli esperti di taffetà, di raso, di passamanerie e di velluti damascati, e le Lavandaie Regali tutte compatte, nonché moltissimi dei loro garzoni - compreso Anorubens, specialista di piccolo punto e paillettes, che, grazie a quel suo nome e ai suoi modi, si diceva portasse gran fortuna a tutti - il “pregone”, lì, nell’Isola del Re Nudo, fece un certo effetto.
Si spaventò persino il Principino. Lui attendeva solo la successione, scrutando ogni giorno la salute del Re in attesa di buone notizie terribili ed evitando, nel frattempo, con cura, ogni tipo di grana con l’infida Corte che, però, avrebbe comunque ereditato...
Foto del Re giravano, intanto, il mondo: era nudo, nudissimo.
E anche un po’ rognoso.
E con tutte le sue vergogne in mostra...
Solo nell’Isola, ancor oggi, il Re non è nudo: non lo è per decreto.
A chi sbarca per essere ricevuto a Corte ora viene consegnato un opuscolo di 21 punti che spiega, punto per punto, che il Re è assai ben vestito. In coda, c’è una lista dei complimenti già pronti che, lì, bisogna fare al Re e ai Sarti Reali. A quello - solo a quello - nelle udienze ci si deve attenere.
Tutti, ripartendo, ci ridono su.
La gente?
Non era l’unica sciocchezza che aveva dovuto sopportare in quegli anni bui.
E neppure la più grave.
Sopportò anche questa.
***
Una lezione di Stile
«...Stamani ho detto che noi (archeologhi. Ndr) abbiamo più incertezze che certezze e siamo sempre in movimento, e direi che l’ultima parola non la possiamo mai dire, né, almeno nella nostra disciplina, la dobbiamo mai dire. Forse altri sono più certi, storicamente di noi: io non lo sono stato e non lo sarò mai».
Giovanni Lilliu
archeologo e accademico dei Lincei
(al Convegno di studio sulla ricerca storica relativa alla Sardegna 27-29 maggio 1982)

Un patrimonio che scompare.
«Cultori di storia locale contavano fino a 15 anni fa circa 30 nuraghi in questo territorio, attualmente si riscontra l’esistenza solo della metà di essi e non tutti godono di un buono stato di conservazione. Fra di essi i più noti...».
Francesca Carrada
archeologa
(a pagina 83 de L’eredità del Sarcidano e della Barbagia di Seulo, radiografando la zona di Nuragus, fra le piane della Marmilla campidanese di Barumini e i monti di Laconi dai cento menhir. Nel libro - di una decina di anni fa - manca la data di pubblicazione).

Cronistoria di un Appello al Mediterraneo.

Per il Tiro al Piccione da sempre servono almeno due cose: la disponibilità del piccione a fare la parte del piccione e, anche, buona mira. Mi scuso, dunque, se qui, ora rubo - anzi mi regalo - un po’ di spazio per dimostrare che: a) non è mai stata mia intenzione di interpretare la parte del piccione; b) che - per colpa di un manipolo di funzionari sardi - all’interno di quel Santuario del Sapere che è l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, sparando alla cieca stavolta hanno sbagliato non solo la mira, ma anche il bersaglio. (Al solito c’è qui la libertà di saltare in blocco l’intera sezione: tutto sommato è soltanto il Verbale di una vicenda assai squallida che, però, purtroppo, andava chiarita...).
* * *
La Sardegna?
Terra di mal’aria e di mal’occhio, anche, purtroppo.
È l’altra Sardegna: un’altra che di quella vera, spesso fa le veci.
La grande, grandissima Maria Carta - che sapeva sempre quel che diceva anche quando non cantava - amava ricordare un vecchio proverbio: “Nell’Isola ne uccide più l’invidia che la malaria...”.
E sì - per tutto l’’800 e per metà del ‘900, fino agli anni sessanta - ci furono le zanzare assassine a tener lontana dall’Isola l’Internazionale degli Antichisti.
Subito dopo, neanche un ventennio dopo, a nasconderne i portenti arrivò Vincenzo Santoni sullo scranno di Soprindendente archeologico di Cagliari e Oristano.
Oggi mentre tutti lì, ormai ne attendevano l’impeachment per manifesta incapacità e alcuni traffici strani assai, Santoni - per un grottesco interim - ha avuto in affidamento anche Sassari e Nuoro ed è quindi, ormai, il vero Padrone dell’Archeologia Sarda.
Fatte le debite proporzioni è un po’ come quel Verre che, per delega, disponeva a piacimento della sua Malta. Senza ancora il lieto fine firmato Cicerone, però...
È stato interessante, emozionante - persino entusiasmante - veder crescere a poco a poco un appello-scomunica contro se stessi, il proprio lavoro e il proprio libro, sapendo fin dall’inizio che nella cabina di regìa c’era quell’ometto dalle mille ambiguità.
Anche per questo vale la pena dedicare qualche pagina fitta fitta alla cronistoria di una rappresaglia - che è stata (anche) una vera e propria cafonata culturale - organizzata da un manipolo di burocrati dell’archeologia sarda nell’autunno del 2004 contro la ricerca che questa mostra illustra.
Il tentativo era uno solo: farne saltare la presentazione-convegno all’Unesco di Parigi.
Nella “cabina strategica” con Santoni pochi altri biliosi assistenti alla regìa che, però, hanno poi coinvolto i loro sottoposti, qualche studente, impiegati e anche, poi - irretendone la presidentessa Anna Maria Bietti Sestieri - l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (IIPP) che quando nacque, mezzo secolo fa, aveva curiosità, umiltà e libero ragionamento tra le sue ragioni sociali.
L’hanno fatto in branco, l’assalto contro di me.
All’antica.
Hanno usato il sistema del “pregone”, lo stesso che usavano i banditi di fine ‘800 quando volevano isolare qualcuno e rovinarlo. Il pregone era, infatti, un bando che il Potente della zona rendeva pubblico con l’affissione e suonava minaccioso assai, grossomodo così: “1) X è mio nemico. 2) Se qualcuno si azzarda ad aiutare X diventa mio nemico. 3) Questo ve lo dico forte e chiaro solo per il vostro bene, in modo che poi sappiate come regolarvi”.
Ha sempre funzionato, il “pregone”.
Non gli si raccoglieva più l’uva, al “pregonau”.
Non gli si aravano neppure i campi.
Lo si evitava negli incontri.
E sì: il pregone è un’arma affilata nei secoli.
Fa il vuoto intorno: imbarazza, intimidisce, sporca, paralizza.
Ha funzionato anche stavolta.
La prima volta che Vincenzo Santoni tentò di raccogliere firme contro un mio lavoro era il 2000. Per dovere di cronaca - per Repubblica - avevo dovuto riferire di alcune sue scelte contro natura: nel raccapriccio generale stava abusando con stupefacente alacrità delle meraviglie archeologiche sarde. Nel giro di soli due anni, lui - proprio lui: responsabile dei Beni archeologici di lì - aveva dato il permesso di costruire un complesso immobiliare a Tuvixeddu, la necropoli punica di Cagliari, unica nel Mediterraneo, abbandonata a se stessa e ai rifiuti da sempre.
Non solo: aveva barattato con l’assessorato ai Lavori pubblici del Comune di Cagliari una colossale fodera di legno sull’Anfiteatro romano di Cagliari in cambio della promessa di 270 milioni per realizzare - in cricca, con i suoi fidi - un libro sul quel sito che poi sarebbe pressoché sparito (finora) sotto le nuove gradinate.
Non solo: aveva smantellato il vecchio, fascinosissimo Museo Archeologico che era riuscito a stratificare (con poesia ed efficacia) due secoli di ricerche e ritrovamenti, per riaprirne un altro a gusto suo - una decina di anni (di chiusura) dopo - a poche centinaia di metri di distanza: algido, incomprensibile con le sue datazioni strampalate, con reperti decontestualizzati, con legende gergali in codice, con i bronzetti messi lì nella sabbietta, come fosse un presepe di casa.
E, per di più, senza mai un raffronto con il resto del Mediterraneo.
Te le fanno vedere al museo di Gerusalemme, le Dee Madri della Sardegna...
Te le segnalano in Grecia, le Veneri “cicladiche” gemelle trovate nell’Isola sorella d’Occidente...
Te lo dimostra Lilliu, con i suoi cento studi Lincei, che quegli stessi bronzetti - in Sardegna fissati con gocce di piombo ad altari in pietra - in Etruria, invece, si trovano nelle tombe a far da segnali etnici accanto al sepolcro di quei Tirreni della Diaspora che il Plutarco di Vita di Romolo ci giura essere coloni dei Sardi.
E te lo hanno sentenziato i migliori antichisti conservazionisti dell’Iccrom, dell’Unesco, dell’ICR - quando, nel 1995, venne stilata una “Carta di Segesta”, un protocollo d’intesa per l’intero Mediterraneo - il rispetto e le mille cure che i Teatri Antichi esigono...
Settemila cagliaritani - primo firmatario: proprio l’Accademico dei Lincei Giovanni Lilliu, su babbu mannu dell’archeologia sarda - avevano apposto il loro nome sotto una supplica affinché Santoni si pentisse e si ravvedesse, almeno per quella fodera lignea dell’Anfiteatro, e bloccasse tutto.
Niente da fare.
E scempio fu.
La frase più gentile di quel mio reportage (vedi in www.colonnedercole.it) suonava, più o meno, così: “E ora che la Sardegna avrebbe bisogno di un Dominique Vivant Denon che la perquisisca, la censisca, la cataloghi, la valorizzi, la protegga - proprio come allora si fece per l’Egitto - purtroppo, invece di un Vivant Denon, ha qui un Santoni Vincenzino...”.
Una cattiveria inutile?
No: solo trattenuto realismo.
* * *
Dovere di cronaca? Diritto di parola? Libertà di espressione? Niente di tutto questo: in Soprintendenza venne considerato soltanto un “delitto di lesa maestà”. Già allora Santoni provò a raccogliere firme contro quel mio articolo. Si sfilarono tutti. Denunciò a gran voce le “forconate” di Repubblica. Me la giurò. Era l’inizio di una faida che ancora oggi ha molte ripercussioni ai limiti della legalità, del sopruso, della diffamazione.
Radici lunghe ha la vendetta, in Sardegna.
È sbocciata, fiorita, arrivata a maturazione con l’annuncio che tanti studiosi - geologi, antichisti, geografi, antropologhi - incuriositi dalle antichissime sorprese della mia ricerca avrebbero voluto saperne di più sull’archeologia dell’Isola e che, per di più, l’Unesco voleva addirittura presentare la mostra Atlantikà: Sardegna, Isola Mito nella sua sede parigina, accompagnandola con una giornata-convegno sulle “prime” Colonne d’Ercole e il loro Aldilà mediterraneo.
Per di più il Gal (Gruppo di Azione Locale) del Sinis-Barigadu-Montiferru - la zona che meglio fa vedere nuraghi d’altura intatti come il Losa e gli altri, giù nelle piane dell’Oristanese, totalmente sepolti dal fango - annunciava dai giornali che avrebbe voluto aiutare le nostre ricerche. Lo dicono a Pier Giorgio Pinna de La Nuova Sardegna che lo pubblica.
Apriti cielo!
Bisogna bloccarli: spaventarli.
È l’ottobre del 2004: è il segnale!
Parte l’ordine: bisogna darsi da fare!
Proprio nella Terra del Canto a tenores, si decide che il controcanto non deve, non può essere consentito! E sì: il Pensiero Unico Dominante (di Santoni Vincenzo & C.) non deve esser messo in discussione.
Vengono sguinzagliati i sottoposti del Capo.
Scatenati, cercano e trovano alleanze.
Ci si vota anima e corpo alla Causa: no, non di fare tutti insieme un libro che confuti le ipotesi scaturite dalla mia ricerca, cosa peraltro encomiabile e di probabile successo (visto che allora il libro “inquisito” - pesante e noioso com’è - aveva ormai raggiunto quota 11 mila copie vendute nella sola Sardegna).
L’operazione, però, avrebbe richiesto troppa fatica... E i gerundi... E un uso rischiosissimo della consecutio temporum...
Meglio, molto meglio, allora stilare soltanto un Appello/pregone da tirar giù in quattro e quattr’otto, in un pomeriggio di allegra supponenza, tra amiconi del settore: una scomunica in 21 punti da corroborare con un po’ di firme sotto, in modo da fornire un “segnale forte” (il “pregone”, appunto) e gettar fango. E, anche, dare un imperativo chiaro a tutti coloro che con la Soprintendenza di lì ci devono lavorare.
Scatta l’operazione.
È un vero Pool di Cervelli, quello che si attiva.
Geometrica la sua potenza...
Alessandro Usai, braccio destro di Santoni per l’Oristanese massacrato dagli spietramenti, prende questo stesso catalogo che ora state leggendo, rintraccia come un vero segugio uno per uno gli indirizzi dei nominati, e scrive a chiunque abbia mostrato interesse per la mia ricerca (la sua lettera in www.colonnedercole.it).
Tutti mi chiamano, strabiliati: “Chi è mai questo Usai? E perché così tanto astio contro di te?”.
Alfonso Stiglitz, (archeologo e impiegato comunale a San Vero Milis, l’altra metà dell’appalto s’Uraki, con Usai ) si prende l’incarico di pensare ai giornali: “Niente tracce di alluvione nell’Oristanese” mi spergiura contro, in un articolo su La Nuova Sardegna.
(Lui stesso, nel 1986, in un convegno a Selargius - in una schedina sul Sinis, definita “pianura alluvionale” persino nei libri per le medie - a pagina 96 degli Atti che raccolsero gli interventi di allora, la pensava diversamente. Di certo mi sarebbe sfuggito, ma siccome Dio esiste... A viale Trento - la Porta Portese di Cagliari - per un solo euro, ho trovato l’estratto La penisola del Sinis tra il Bronzo finale e la prima età del ferro... Ebbene lì, in quel bel fascicoletto, proprio Stiglitz radiografando il “suo” Sinis scrive: “Gli edifici turriti rinvenuti sono a tutt’oggi, 58 per un’estensione territoriale di circa 160 Kmq. L’identificazione e la definizione spesso non è agevole e talvolta impossibile, in particolare per gli edifici siti nella piana alluvionale e nelle aree palustri. Qui infatti lo stato di interramento, i lavori agricoli e le costruzioni moderne impediscono un’analisi delle strutture...”. Può la Sardegna lasciare una “Pompei del Mare” in mano a uno così? A Ercolano, uno così, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata di togliere via la coltre di pomice che rende unico al mondo quel posto... Nel Sinis - appena ha soldi - sta togliendo via il fango senza neppure analizzarlo né pubblicare mai nulla: un vero genio!).
Corre in soccorso anche Piero Bartoloni: l’azzimato ras di fenicerie sulkitane (che ha appena amputato via un paio di millenni di storia a Sant’Antioco facendo lì un museo solo fenicio in un’isoletta che ha almeno 82 nuraghi e un passato strabiliante tutto ancora da indagare e raccontare) parte in missione al Convegno di Africa Romana a caccia di firme. Supplica, intima, millanta, seduce Bartoloni: qualcuno anche lì gli regala il suo nome.
Un geologo del Cnr cagliaritano - tal Agus, che Mario Tozzi ( “giovane collega” colpevole di aver ritenuto possibile in Gaia l’antica versione di uno “Schiaffo del Mare” nel Campidano, verbalizzata in due capitoli di Colonne d’Ercole) lo vede come il fumo negli occhi - pensa ad assicurarsi l’adesione di altri suoi colleghi di Geologia: in sei - dall’Isola - si fanno garanti che mai e poi mai la Sardegna può aver subito maremoti.
Dopo quasi due mesi, ai primi di dicembre 2004 i nomi in calce all’Appello/pregone sono ormai una settantina: alcuni anche abbastanza importanti, per l’Isola. Bastano comunque a trovarne altri (che adorano il quieto vivere e temono rappresaglie se non firmano) e partire in missione a Firenze - a spese della Soprintendenza di Cagliari - al Conclave annuale dell’Istituto di Preistoria e Protostoria.
È il 27 novembre 2004!
È arrivato il gran giorno! Si fa la festa all’intruso! Si lincia un libro scomodo. Si urla in coro: vietato ragionare ancora!
«Aiuto, Aiuto! C’è un attacco alle Soprintendenze sarde!» viene annunciato a sorpresa, dal pulpito dell’IIPP. I convegnisti allarmati vengono presi uno a uno, lavorati ai fianchi, convinti sulla fiducia - visto che, per lo più, tutti lì del mio libro sì e no conoscevano il titolo - alcuni minacciati di vita difficile (e ricerche vietate, e convegni impediti, e vendette future) in terra sarda. Sono un centinaio quelli che a cuor leggero, regalano la loro firma solidale contro l’alieno che non solo pensa di poter trovare le sue “atlanticherie” in giro per la Sardegna, ma che lo fa senza chiedere il permesso al loro Istituto, osando perfino mancare di rispetto alla corporazione, denunciando gli scempi di Santoni & C. a cui tutti - persino i suoi fedeli - sono, da sempre, rassegnati.
Proprio come per il tiro al piccione - dove serve il piccione - anche per una scomunica serve qualcosa: almeno un pulpito ci vuole... Quello dell’IIPP, per far questo, funzionava a meraviglia...
Mancava, però, un Pontefice Massimo che sacralizzasse - con l’infallibilità dei suoi giudizi - l’anatema. Si sono accontentati di una Papessa: la presidentessa dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria - Anna Maria Bietti Sestieri - un po’ alla leggera, si converte alla causa e mette la sua firma sotto l’Appello contro un libro che neppure ha letto e contro una professionalità che neppure conosce né immagina.
E sì che, all’inizio, la sapevo - e, quindi, la pensavo - persona seria.
Tanto che appena informato del blitz degli archeo-burocrati sardi nella Santa Sede del Sapere Preistorico - un po’ per rispetto alla categoria degli Antichisti & Archeologhi, un po’ succube di mille pre-giudizi positivi - le avevo scritto di getto questa lettera privata...
***
Dovessi titolarla oggi, la titolerei così: «Una supplica, Professoressa. Mi tratti con la stessa serietà che usa con i cocci».

10 dicembre 2004

Gentile Professoressa Bietti Sestieri,
con un po’ di amarezza sono costretto a chiederle un po’ del suo tempo per cercare di risolvere insieme la spiacevole situazione che si è venuta a creare e che rischia di striare di ottusità oscurantista l’immagine dell’Istituto da Lei diretto con tanta passione e serietà.
Mi chiamo Sergio Frau e sono un giornalista di Repubblica.
Di questo quotidiano sono uno dei fondatori e oggi ne sono inviato per i temi culturali. Ventotto anni di lavoro e serietà, ormai. E sempre sotto il controllo di un pubblico che, dal giornale, abbiamo visto crescere man mano fino agli attuali 750 mila lettori. (Fatti miei, certo. Ma, vedrà, in parte anche suoi, ormai...). Ebbene: questo lavoro mi ha costretto a fatiche entusiasmanti. La più gradevole? Prepararmi di volta in volta, con tigna e umiltà, per dover parlare e intervistare specialisti che non solo ne sapevano molto più di me, ma che via via mi hanno affidato spezzoni delle loro vite o resoconti di loro ricerche, di cui io avrei dovuto poi fare cronache e sintesi. Un rapporto di fiducia che penso proprio di non aver mai tradito. E di questo vado fiero.
È stato il mio, finora, un fantastico Grand Tour, che mi ha permesso di ascoltare con incontri ravvicinati, gente come Antonio Cederna, Federico Zeri, Massimo Urbani, Pierluigi Cervellati, Edgar Morin, Dario Fo, Giuseppe Sinopoli e - per avvicinarmi di più al suo campo d’azione - personaggioni come Sergio Donadoni, Giovanni Lilliu, Andrea Carandini, Francesco D’Andria, Stefano De Caro, Christiane Desroches Noblecourt, Jean Pierre Mohen, Jean Yves Empereur, Nikos Stampoulidis, Lorenzo Braccesi, Margherita Asso, Doudou Diène oltre a cento altri operatori culturali (soprintendenti, restauratori, archeologhi, ...) di cui avevo già stima prima di conoscerli, e che, poi, conoscendoli meglio ho considerato come esperienza preziosa. Preziosa e anche formativa del mio modo di vedere le cose e i problemi che riguardano il paesaggio, il nostro patrimonio d’arte, il mondo antico e la sua gestione.
Avrei pagato io per sentirli: invece mi hanno sempre pagato...
Tutta questa lunga premessa (che, però, ha dovuto riassumere un’intera vita di lavoro scrupolosissimo e - grazie a Dio - riconosciuto finora come tale) per arrivare all’oggi: alla grottesca “scomunica” che profittando del pulpito dell’Istituto da Lei diretto, mi è stata scagliata addosso in forma di “Appello agli studiosi di scienze dell’antichità del mondo mediterraneo” da un drappello promotore, assai variegato, con pubblica lettura, sabato 27 novembre. Ho avuto modo di prenderne visione - secretato com’è, per ora - solo due giorni fa.
Mi spiace dover essere proprio io a dirglielo, ma vi siete lasciati coinvolgere - con imbarazzante leggerezza - in un gioco sporco assai, avviato e condotto con tronfio cinismo sia verso di me che verso di voi. È stato - quello sparato dai vostri microfoni - un vero e proprio “regolamento di conti” (vecchi di anni) che si è saldato a invidie nuovissime e ad altre miserrime difese corporative di appalti e prebende. Una aggressione - per certi versi anche un po’ inquietante - che, vedrà, non fa onore né a chi l’ha organizzata e neppure a chi, come voi, se ne è fatto inconsapevole cassa di risonanza.
L’occasione l’ha fornita una mia ricerca sull’esatta posizione delle prime Colonne d’Ercole, pubblicata nel 2002 con il titolo “le Colonne d’Ercole, un’inchiesta”, giunta alla sesta ristampa e corroborata fin dalla prima edizione da postfazioni di Maria Giulia Amadasi Guzzo, Lorenzo Braccesi, Sergio Donadoni, Sergio Ribichini. Argomento rischiosissimo, quello delle Colonne... Devastante, poi, avere un dubbio nato dalla geologia marina e accorgersi che da 22 secoli - dalle rivoluzioni geografiche alessandrine - quel dubbio non era mai venuto a nessuno. Mille verifiche, mille controlli, mille cautele: tutto pressoché normale per uno che con la serietà e lo scrupolo professionale ci campa. Un anno e mezzo di pausa al giornale - rinunciando allo stipendio - per gettarmi a corpo morto negli ultimissimi confronti. Ne sono uscito bene, però: era proprio così! Le “prime” Colonne d’Ercole raccontate con bassi fondali (da Aristotele) e descritte come più vicine alla Grecia che la fine dell’Adriatico (da Dicearco), all’inizio - per un periodo, tra V e fine III secolo - erano lì al Canale di Sicilia dove Omero metteva tutti i suoi mostri e dove ancor oggi muoiono centinaia di disperati cercando di arrivare da noi, “terra promessa”.
Il libro - presentato come una “Lettera Aperta ai Sapienti”: un’ipotesi assai ben documentata su cui riflettere, con ben 1792 punti interrogativi e parecchie risposte sottoposte al lettore con umiltà (ce l’ha presente l’umiltà?) - in questi due anni ha ricevuto molti autorevoli consensi. Alcuni entusiasti. Li potrà trovare nel catalogo “Atlantikà” che le invio e che è servito ad accompagnare una mostra documentaria di fotografie sulla Sardegna che ha ricevuto il patrocinio dell’Unesco (annunciatomi a sorpresa, il giorno dell’inaugurazione dal professor Attilio Mastino, prorettore dell’Università di Sassari e incaricato dell’ambasceria dal professor Mounir Bouchenaki, direttore generale per la Cultura dell’organismo transnazionale) e che - vivaddio - sta piacendo molto anche a persone assai “difficili”. Luciano Canfora per l’Ellenismo, Andrea Carandini per una visione dell’Occidente, Salvatore Arca direttore della Scuola Superiore di Scienze Geografiche dell’Istituto Geografico Militare, Mario Tozzi (geologo del Cnr), e tanti tanti altri specialisti, hanno trovato assai giustificato quel mio dubbio che non solo “normalizza” (rende più normale, simmetrico, equilibrato) il Mediterraneo degli Antichi ma quadra bene con le fonti e, pure, risolve molte incongruenze di testimoni eccellenti.
Uno per tutti: Erodoto, il quale - ricordiamolo - giura ben tre volte di non sapere come finisca l’Europa ad Occidente e che - trascinato a forza al di là delle Colonne di Gibilterra - veniva tradito con una “sua” Tartesso in Andalusia, proprio lì dove finisce l’Europa in Occidente...
Nell’analisi delle antiche testimonianze mi è capitato di imbattermi anche in Platone e nella sua Isola di Atlante. Uso “Isola di Atlante” proprio per non finire nella fanghiglia di Atlantide, l’Isola delle Fantasticherie assai malfrequentata (e già trovata 7.000 volte da 7.000 libri), che considero quasi un incidente di percorso nella mia rotta di ricerca: ho, infatti, sempre nutrito una forte ripugnanza per gli enigmi. Qui però, non di enigma si trattava ma di un semplice malinteso: ben criptato da mappe “recenti”, alessandrine, a confondere il tutto, ma pur sempre un malinteso.
L’Atlantide fuori da Gibilterra - si sa - gemella chiunque la nomini con ufaroli ed esoterici. L’Isola di Atlante che è riapparsa a sorpresa dalla mia inchiesta appare come tutt’altra cosa: affratella la Sardegna al Caucaso del “Prometeo incatenato” di Eschilo e con quell’Oriente anatolico assai presente nell’isola fin dal V millennio a.C. che esplode poi con la ziggurat di Monte d’Accoddi del III millennio. Due fratelli disgraziati, insomma, messi lì a segnare con i loro supplizi - a Est Prometeo e a Ovest Atlante - quella cosmogonia greca costruita lungo la rotta del sole che aveva Delfi a far da Centro.
Ebbene le fonti antiche sulla “Grande Isola d’Occidente” - Omero con la sua Scherìa “lontana lontana nel Mar d’Occidente”; Platone con la sua Isola di Atlante che governa l’intera Tirrenìa; Esiodo con le sue “Isole Sacre” rette dagli illustri Tirreni - mi hanno convinto a varare due ricognizioni in Sardegna (una nel 2003, l’altra nel Settembre 2004) con équipes di altissimo livello formate da antichisti italiani e stranieri e geologi di grande serietà: si trattava non solo di far conoscere ad addetti ai lavori (che da sempre ragionano sul mondo antico) un’isola che nel II millennio a.C. era un portento di vita, e che però poi nel I, sopraffatta da malaria e da chissacché, si fa “conquistare” da drappelli di Fenici, ma anche chiedersi - tutti insieme, ragionando in libertà - se quello “Schiaffo di Poseidone” di cui parla Omero, quei cataclismi narrati da Platone come causa della fine, avessero riscontri geologici nell’isola.
Le faccio i nomi. Nel 2003 c’erano: Maria Giulia Amadasi Guzzo (Docente di Epigrafia Semitica all’Università la Sapienza di Roma); Lorenzo Braccesi (Docente di Storia Antica all’Università di Padova); Vittorio Castellani (Astrofisico alla Normale di Pisa, archeologo e Accademico dei Lincei); Claudio Giardino (Archeologo specializzato in metallurgia antica, docente all’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli); Mario Lombardo (Docente di storia e letteratura greca e archeologo all’Università di Lecce); Kostas Soueref (Archeologo della Soprintendenza di Salonicco, Grecia); Benedetta Rossignoli (Ricercatrice e saggista dell’Università di Padova). In qualità di osservatori: Massimo Faraglia (già responsabile dell’Archivio di Repubblica) e Reynaldo Harguinteguy (Funzionario Unesco/ animatore culturale). Può leggere le loro riflessioni (insieme a quelle del geologo del Cnr, Mario Tozzi) nel libro “Atlantikà” che le invio.
Quest’anno - oltre ad Amadasi Guzzo, Giardino, Ribichini - c’erano anche Azedine Beschaouch (Accademico di Francia, archeologo, con noi per conto dell’Unesco); Isa Boccero (direttrice del Museo del Sannio); i geologi del Cnr Davide Scrocca e Vincenzo Francaviglia (Nuove tecnologie per i Beni Culturali); Antonello Petrillo (docente di sociologia all’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa), Oya Barin (attaché culturale dell’Ambasciata di Turchia a Roma), Carlo Zanda de “La Stampa” e Daniela Fuganti di “Archeo”. Aver suscitato il loro interesse è per me fonte di orgoglio.
Dell’intervista rilasciata dall’Accademico di Francia, Azedine Beschaouch, al termine di questa nostra ultima ricognizione in cui si invita ufficialmente la mostra “Atlantikà” a Parigi per essere presentata nella sede dell’Unesco con un convegno d’inaugurazione, le allego fotocopia, estraendone un’unica frase, data in risposta alla domanda dell’intervistatore dell’Unione Sarda, Mauro Manunza, che chiedeva: “Come lei saprà, qui (in Sardegna. Ndr) il libro di Frau ha incontrato molto favore nel mondo accademico ma fredda ostilità negli ambienti archeologici governativi...” E Beschaouch: “Una cosa sia chiara: questo libro ormai non è più sardo né italiano. Adesso è sul piano superiore della ricerca e della cultura universali. Il problema non riguarda le polemiche in Sardegna, ora abbiamo qualcosa di livello ben più alto. Alla luce di questo libro possiamo andare avanti. Dopo questo libro non è più possibile tornare indietro”.
E’ una delle centinaia di attestazioni che ho ricevuto, certo una delle più gradite.
Capisce, ora, da dove mi arrivano gli anticorpi per resistere alle punture di fiele e bile come quest’ultima scomunica ridicolmente “sacralizzata” dal vostro pulpito?
Per aiutarla a comprenderne la genesi le riporto qui per intero, invece, il messaggio che lo stesso Accademico di Francia ci ha inviato appena ritornato a Parigi:
“Caro Sergio, cari sindaci, cari colleghi, arrivando a Parigi ho subito sentito una grande nostalgia...Vorrei anzitutto ringraziarvi per quest’amichevole accoglienza e per la “sinfonia” prodotta. L’incontro è stato veramente un simposio socratico, un convegno itinerante e un sym-bolo. Bravo a lei e a tutti i colleghi. Dobbiamo fare tutto per la salvaguardia dello spirito della civiltà sarda e della diversità culturale dell’Isola Mito. La specificità e la ricchezza nuragiche sono stupende e davvero fanno parte delle meraviglie del mondo. Un saluto particolare al mio monumento preferito, il s’Uraki, che bisogna conservare nello stato in cui è, senza toccare la sua autenticità e la sua anima. La prego di non dimenticare questa raccomandazione speciale. Grazie di nuovo a tutti e per tutto... Azedine Beschaouch”.
Stiamo arrivando al dunque: la raccolta di firme nasce a sorpresa solo ora - a sorpresa, a quasi due anni dall’uscita del mio libro (che, noioso com’è, solo in Sardegna ha venduto finora 10.000 copie, dimostrando di aver superato un controllo sociale assai affidabile, se si ha stima nel pubblico) - e nasce solo ora proprio per tentare di bloccare sia la presentazione della mostra “Atlantikà” a Parigi, che la libera circolazione delle idee nell’Isola. Se l’intervista dell’Accademico di Francia può aver suscitato qualche invidia in Sardegna (soprattutto in gente che non ha mai pubblicato nulla), proprio quest’altro suo messaggio ha suscitato le reazioni di uno studioso locale che - abbiamo saputo dopo - proprio il nuraghe s’Uraki (sepolto da rovi e cespugli fino a un incendio che l’estate scorsa l’ha “scoperto”, tanto da poter essere fotografato e presentato nel libro alle pagine 46/47) sta studiando da ben 24 anni senza aver mai avuto tempo e modo di pubblicarlo come si deve, visti i ritmi che il suo lavoro di impiegato comunale gli impone. Ora però, che sono in arrivo nuovi finanziamenti - un quarto di milione di euro, si dice in zona - vale la pena di mettersi sotto a scrivere... E lui lo sta facendo, sì, ma tempestando di lettere giornali, studiosi e colleghi, in modo che quell’appalto arrivi a chi di dovere: cioè a lui, direttore degli scavi.
Le parole del professor Beschaouch - regalate con l’esperienza di uno che per più di dieci anni ha diretto la Sezione del Patrimonio Mondiale dell’Unesco - certo non nascevano per guastargli la festa: miravano piuttosto a suggerire agli amministratori locali un ritmo “narrativo” a un territorio come quello sardo che - con le sue diecimila torri - può rischiare di apparire ripetitivo a chi non lo sa leggere con gli occhi giusti: in pratica il professore - che sa bene quel che tutti gli archeologhi più moderni ormai dicono, essendo archeologo lui stesso. E che cioè: meno si scava meglio è, visti i passi da gigante che stanno facendo le nuove tecnologie e le sorprese che ci potrebbero fornire in un prossimo futuro - consigliava in quel suo messaggio ai 38 sindaci del Sinis-Barigadu-Montiferru che - Padroni di Casa - avevano sponsorizzato la nostra ricognizione, di non esagerare con i cantieri archeologici: regalano soldi in giro, certo, ma un territorio come il loro, già dotato di meravigliosi mastodonti di pietra quasi intatti (uno per tutti: il Nuraghe Losa), può permettersi di lasciare alcune zone ricche di reperti non scavate né restaurate dove ancora poter godere le suggestioni del tempo trascorso e le usure che ha portato.
Quel nuraghe citato poi - il s’Uraki - mezzo coperto dal fango nel suo lato verso il mare, e imponente quasi intatto nel suo lato a monte, ha - se non è stato già sbancato in questi giorni - una sua tragica e suggestiva potenza, facilmente verificabile da chiunque si rechi in zona, vista la sua posizione sulla strada che conduce a San Vero Milis.
Questo, insomma, il “sacrilegio” che ha dato il via a una campagna a difesa dello sbancamento e dell’appalto che servirà a realizzarlo. Una campagna vecchio stile contro di me: fatta di lettere e veleni, di fango e calunnie, di sbeffeggiamenti e raccolta firme che, ora, ha appena usato voi - pulpito eccellente - per farsi sentire meglio e cercare di trasformare un’ingorda difesa corporativa firmata per lo più da dipendenti di soprintendenza, in “scomunica scientifica”. L’unico modo per riuscirci - vista la squinternata rilevanza delle prime 50 firme raccolte - era usare voi e la vostra credibilità.
E l’hanno fatto.
Per renderla, poi, un’arma più affilata - dopo aver tentato di rendere caricatura la mia ricerca (una perla tra tante: “”le cosiddette” Colonne d’Ercole...”) - dal libro si è estratta soprattutto la parte in cui riporto i brani di Omero e Platone che attribuiscono a cataclismi marini la fine della loro portentosa isola occidentale. Omero, ricorderà, parla di “Schiaffo di Poseidone”. Platone ci dice che Zeus inviò catastrofi per rendere migliori gli abitanti dell’isola, ormai troppo superbi. La Sardegna ha - a percorrerla nel suo centro - quel canyon che milioni di anni fa era mare: oggi dopo possenti invasioni marine (ammesse da sempre da tutti i geologi) si chiama Campidano. Lì dentro un maremoto si è spalmato sull’altro, fino a farne una tavola di fango rappreso con tanto di laghetti salati a livello del mare. Talvolta sotto il fango (per lo più marne argillose) capita di trovare reperti come Barumini o il Nuraghe di Villanovaforru: due giganti che hanno restituito tanta roba del XII secolo a.C. da riempirci musei.
Io il dubbio che ci sia stato un evento traumatico ce l’ho.
Né me lo tolgono o mi spaurano le firme che - proprio grazie al vostro appoggio e al vostro autorevole quanto superficiale imprimatur - la “scomunica” potrebbe ottenere in giro, d’ora in poi.
Sicuri che non sia successo nulla del genere?
E voi, lì all’Istituto, per ora, che ne sapete? E anche: perché dovrei fidarmi di resoconti di studiosi locali che su questo punto non ritengo attendibili, visto che hanno da sempre celato (o, almeno, sottovalutato) quanta architettura nuragica fosse posizionata sulle coste sarde, come a blindarle? E perché non avrei dovuto chiedere il parere a geologi di chiara fama? Solo perché loro, finora, non l’hanno mai fatto? Grottesca situazione, ammetterà...
Del resto, proprio per questo - per verificare con serietà scientifica se le parole degli Antichi erano solo fantasie, o se invece nascondevano lontane memorie - una volta finito il libro, dove peraltro del cataclisma appena si accenna, l’avevo fatto avere a Mario Tozzi del Cnr, un geologo che già stimavo pur senza conoscerlo.
Lui si è appassionato a quel mio dubbio: ha fatto sopralluoghi mirati e persino una trasmissione vista da un totale di sei milioni di persone. I miei punti interrogativi sono diventati anche suoi. (Nel libro che le invio c’è il progetto dettagliato di Tozzi per un’indagine geologica sul campo).
Conclusione? Servono ormai indagini geologiche mirate per verificare se lì un disastro è potuto accadere o no. Anche per questo - nella seconda ricognizione interdisciplinare di quest’anno - erano presenti quegli altri due geologi del Cnr che hanno trovato assai interessante il problema di queste “due Sardegne” diversissime tra loro: una, quella in alto, dove il mare non può arrivare, dai Nuraghe intatti; l’altra - quella delle piane - con centinaia di torri intrappolate o addirittura seppellite dal fango.
Non interessa loro? Fatti loro, appunto.
Interessa me e molti, molti altri. Tanto è vero che questa mia ricerca - con tutti i suoi dubbi ancora da sciogliere - ha poi fatto da calamita a professionisti di mille tipi. Uno, Francesco Cubeddu - premio nazionale di fotografia aerea - grazie a foto scattate dal suo parapendio, ci ha permesso di presentare in mostra (per la prima volta!) una documentazione eccezionale di decine e decine di nuraghe inglobati dal fango del Sinis (vedi catalogo Atlantikà). Tra questi anche il Nuraghe s’Uraki, su cui sembrerebbe vietato ragionare in libertà.
Cara professoressa, comincia a venirle qualche dubbio?
Non ancora? Guardi i fatti. Scientificamente...
Tra un Accademico di Francia che la sa lunga sulla gestione culturale dei siti e mette nero su bianco un concetto così: “Il vostro territorio è bellissimo com’è, valorizzatelo!”, e un archeologo/impiegato comunale che sta aspettando centinaia di migliaia di euro per mettersi al lavoro e tirare a lucido un altro dei mille nuraghe lì in zona, dov’è - dove può essere mai? - l’amore disinteressato? E dove può nascondersi “l’interesse privato in atti scientifici” se non in chi vede minacciati i propri poteri assoluti ben sedimentati (e relativi equilibri) dall’arrivo in “zona loro” di studiosi di fama internazionale? Altro che salvaguardia del rigore scientifico, questa...
“E’ un giornalista... Faccia il giornalista!” così, con la spocchia dei cretini, era stato liquidato (in pubblico e in privato) il mio libro da alcuni firmatari dell’appello. La pensa così anche il suo Istituto? Nonostante le conferme arrivate? Sarebbe assai triste... Eppure l’ipotesi che ci sia stato un forte pregiudizio corporativo dietro la copertura/avallo che avete appena fornito a questa cialtronata, si fa più realistica vedendo per bene le firme promotrici dell’anatema che mi riguarda. Più della metà dei nomi appartengono a dipendenti della Soprintendenza di Cagliari e Sassari. Lei ha verificato se tutta quella gente che ha firmato quest’appello (nato nella Soprintendenza di Cagliari, come la lettera di Alessandro Usai dimostra), l’ha fatto in totale libertà? E che non ci siano state pressioni di sorta su firmatari che con la Soprintendenza sono costretti a lavorare e a fare i conti? E chi ha firmato - all’inizio e anche dopo - l’ha fatto con vera cognizione di causa? Quindi dopo aver letto il mio libro? Se ne è accertata?
Non è più pensabile, oggi, che una raccolta di firme venga utilizzata - come ai tempi del maccartismo - per fare la conta dei fedeli o, peggio, per intimorire studiosi “rompiscatole” in modo che si sentano indesiderati in zona. Ma, certo, il sospetto qui non è da escludere...
Soprintendenze di Cagliari e Sassari e una certa etruscologia (che tra i firmatari appare in ordine sparso, ma comunque legata in modo più o meno soffocante alla corte di Mario Torelli) appaiono i registi della raccolta. Un pool di cervelli che può anche far impressione, certo. Molti di loro firmano qualcosa di pubblico per la prima volta. Capisco che il suo Istituto si sia affrettato a conceder loro l’imprimatur...
Ebbene, professoressa, sappia che proprio con questi due gruppi sto pagando oggi - adesso che grazie a voi se ne è presentata la possibilità - la “colpa” di aver fatto in un passato assai recente il mio lavoro di cronista con il rigore che la nostra professione ci impone.
La Soprintendenza di Cagliari - e s’informi, se non lo sa! - è, grazie al suo Soprintendente Santoni Vincenzino, la vergogna delle Soprintendenze italiane.
(Soprintendenze che - s’informi - decine e decine di volte ho difeso. Pensi che l’ho fatto persino quando si è trattato di dar voce ai lamenti di archeologhi e storici dell’arte, che - sopraffatti dallo strapotere Fiat, in occasione della mostra di Palazzo Grassi “I Greci d’Occidente” - erano stati costretti a far viaggiare fino a Venezia - e a quel raccapricciante Barnum messo in piedi da Gae Aulenti - pezzi fragilissimi come l’affresco staccato del Tuffatore di Paestum. Le allego l’articolo).
Tornando alla “non” Soprintendenza di Cagliari, “regista” o “coregista” della scomunica, me ne sono dovuto occupare quando - dopo quasi dieci anni di attesa e di lavori impiegati a smontare il vecchio fascinosissimo museo allestito dal Taramelli - fu finalmente aperto il Museo Archeologico della città per le cure di Carlo Tronchetti e la responsabilità di Santoni Vincenzino, appunto.
Un museo cretino, lo posso pensare? Lo posso dire? Lo posso scrivere? Comunque, è agli atti, perché l’ho fatto: ma solo dopo averlo visitato con Giovanni Lilliu (costretto, con i suoi 86 anni di allora, a farsi a piedi le quattro rampe di scale per arrivare nell’ufficio di Santoni che, però, dopo averci fatto dire di salire fino a lui, arrivati su ci liquidò - impegnatissimo com’era - dicendoci che aveva troppo da fare e quindi di ridiscendere con Tronchetti, deputato a farci da guida nella visita) e aver constatato il disastro combinato là dentro. Non un solo raffronto con il resto del Mediterraneo vi veniva fatto; i bronzetti erano posizionati così in basso che difficilmente li si poteva apprezzare; molti contesti erano stati smembrati in modi irreparabili; le sezioni erano scandite e criptate da nomi in codice tanto da farsi del tutto incomprensibili (o ridicole) a chiunque archeologo sardo non fosse (tipo: Bonu Ighinu 1; Ozieri 3...). Il tutto, poi, senza mai una datazione a orientare il visitatore non specialistico, né una mappa a facilitare la collocazione geografica di quei ritrovamenti.
Forse era amore, il mio...
Amore deluso! Dopo anni e anni che il vecchio meraviglioso museo era sbarrato, nascondendo ai turisti la grande storia della Sardegna, ora si riaprivano i battenti e ci si ritrovava con un sorta di supponente e lustra “farmacia di antico” che scollegava la Sardegna dal resto del Mediterraneo.
Chi ha avuto la fortuna di conoscere il Museo di Gerusalemme sa bene cosa si può fare per collegare le veneri “cicladiche” sarde, a quelle identiche delle Cicladi... Chi conosce il Museo Dappert di Parigi sa bene come si possono presentare al meglio - senza umiliarle - le piccole sculture e come si sarebbero potuti valorizzare i capolavori di bronzistica sarda allestiti invece lì, quasi come un presepietto ignorante.
Libertà di pensiero e di parola, insomma, quella che mi presi allora...
Dovere e diritto di cronaca, invece, aver dovuto dar conto degli scempi e dei massacri avvenuti in zona Cagliari e Oristano durante la gestione Santoni: un anfiteatro romano foderato di legno fino a nasconderlo in barba alla Carta di Segesta sulla salvaguardia dei teatri antichi (7000 inutili firme cercarono di proteggerlo); una poderosa necropoli punica come Tuvixeddu, strangolata e ora squartata da operazioni immobiliari consentite dalla Soprintendenza; sbancamenti, scempi e altre scemenze perpetrate a ripetizione senza che il responsabile di tutto ciò pagasse mai il minimo prezzo, se non qualche critica del sottoscritto e di molti altri cronisti attenti.
Diciamocela la verità, professoressa, a Santoni gli è andata sempre fin troppo bene... Il fatto vero è che la Sardegna è assai lontana, un po’ come la Malta di Verre. Ed è così che mezza isola può pagare a carissimo prezzo qualsiasi posizione non riverente nei confronti del potere “assoluto” dei Verre locali.
Ora - grazie a voi, alla copertura appena concessa loro, che nei fatti sarà utilizzata come attestato a questi comportamenti - andrà anche peggio: stanno infatti tentando di blindarsi là dentro ed esportare faide, regolamenti di conti e vendette in continente. Ma mica ve lo dicono, però - al momento di farvi firmare - che proprio in questi mesi la magistratura sta indagando sui costi lievitati di cantieri archeologici autorizzati da loro. E neppure quel che scrivono i carabinieri (e che i giornali locali riportano con terribile ritmicità) su recenti furti d’opere d’arte antiche avvenuti nonostante le forze dell’ordine avessero segnalato per tempo e per scritto - e proprio alla Soprintendenza di Cagliari - l’insicurezza di quei capolavori a rischio. (Le allego gli articoli che “L’Unione Sarda” ha dedicato all’inchiesta giudiziaria sui cantieri archeologici e al furto della Pantera scolpita, rubata dalle Terme Romane di Fordongianus).
Ho quasi finito, professoressa: le manca un ultimo tassello per ricomporre il puzzle della sporca avventura in cui è stato trascinato il suo Istituto: l’alleanza con i Pallottiniani di Torelli & C. (ovvero una grossa fetta degli altri firmatari del ridicolo anatema che mi riguarda e che dovrebbe intimorire l’Unesco, me e pure gli studiosi che finora hanno trovato stimolante i risultati della mia ricerca). Qui, con i “Pallottiniani”, la mia “colpa” è tutt’altra: è di aver sottolineato con un articolo del 19 aprile 2001 che le allego, la vistosa consonanza di un dogma stabilito da Massimo Pallottino e ripetuto ancor oggi da molti suoi epigoni (“Non è importante sapere da dove vengano gli Etruschi”) con un diktat ai docenti fascisti ispirato da Mussolini e pubblicato su “Razza e Civiltà” (numero maggio-luglio 1941, Anno II dell’Era Fascista: “In conclusione: si deve parlare di Razza Italiana o italica. O ario-romana”, smettendola con tutti gli altri interrogativi. Parola del Duce...) giusto un anno prima di “Etruscologia”, l’opera che lo stesso Pallottino pubblicò dedicandola a Mussolini.
Ebbene: Torelli - all’epoca curatore di una mostra veneziana sugli Etruschi, costruita su quel dogma, tanto che persino le guide all’ingresso (e le audioguide in affitto) spiegavano che era sciocco continuare a interrogarsi sulla provenienza degli Etruschi - me la giurò, come fosse lui stesso Pallottino (il quale, peraltro, non nascose mai le sue simpatie di destra) o una sua vedova. Adesso proprio lui - saldandosi al killeraggio dei funzionari sardi e a quel loro bric à brac di firme frustrate - trova modo di rispettare quel giuramento.
Ora, professoressa, sa.
Era davvero questa l’operazione che pensava di avallare permettendo che quell’infantile lamentela - “Papà Istituto, lo vedi questo Frau quant’è cattivo e dispettoso che continua a ipotizzare un maremoto in Sardegna senza darci retta? Lo puoi strillare e mettere a posto tu, visto che sta portandoci scienziati da fuori? Lo puoi urlare forte - con la voce grossa dei tuoi microfoni - che a interrogarsi e ragionare sull’antica Sardegna, qui in Sardegna dobbiamo esserci solo noi?” - permettendo che quella ridicola lamentela venisse lanciata dall’autorevole pulpito che dirige?
Non posso crederlo.
La so persona seria.
So anche, però, che stavolta nei miei confronti non ha usato la proverbiale serietà che di solito usa con ogni coccio che scava e che trova. Ecco, professoressa: per favore, vorrei essere trattato come un coccio. Mi tratti come un coccio: con lo stesso scrupolo che lei usa con i suoi cocci. Quindi: si documenti, s’informi, guardi il contesto, le testimonianze, le valuti per bene anche con quei suoi colleghi che hanno sottoscritto con leggerezza l’appello/scomunica contro di me. Proprio l’autorevole sede da lei diretta gli ha concesso una garanzia di “scientificità” del tutto immotivata che ha indotto a firmare “sulla fiducia”.
Un linciaggio a cuor leggero, insomma, il vostro...
Un anatema per conto terzi!
Sia ben chiara una cosa: io non pretendo assolutamente di aver ragione. (Né mi interessa, affatto, convincere uno per uno tutti i funzionari statali, comunali, antropologi o anche i vari torelli che si aggirano per l’Italia, usando questi loro metodi: ognuno - si sa - cerca la stima di chi stima; così come ognuno ha facoltà di pensarla come gli pare). Quello che, invece, pretendo è di ragionare con serietà e di poterlo fare in tutta libertà. Non credo sia nei vostri intenti di impedirmelo. O no?
A pagina 22 del mio libro scrivo, nel mio di appello: “Lettera aperta a gente pronta ad appassionarcisi su, insomma, persino solo su un dubbio. E che è, poi, disposta a ragionarci, a discuterne, a cercare conferme o smentite. O anche conferme e smentite impastate insieme...”. Sapesse quanta ne ho trovata, poi...
Come uscirne, ora? Con una vostra autocritica pubblica? Con una lettera di scuse? Con una causa per danni? Io, sinceramente, stimo troppo la vostra categoria per vederla infangata, infettata e rappresentata da queste bande in campo. Paradossalmente, ormai, mi sento quasi “uno di famiglia” e i panni sporchi - in questo caso sporcati, e con cinica determinazione anche nei vostri confronti - andrebbero lavati in famiglia. Certo è, però, che ne voglio uscire pulito e senza macchie addosso. Non ne ho parlato ancora con avvocati che possono proteggermi. Conto, infatti, sul suo rigore e sulla sua onestà intellettuale per riuscire a farlo e uscirne bene. Senza essere costretto a difendermi con metodi vistosi che, probabilmente, mi aiuterebbero a vendere parecchie copie in più, ma che potrebbero danneggiare l’immagine del vostro Istituto e di una categoria di serissimi e appassionati professionisti che ho sempre stimato e difeso non solo con tutto il cuore, ma anche con la professionalità che ho.
Confido in una sua sollecita risposta e le porgo i miei migliori saluti
Sergio Frau

Allegati (anche in www.colonnedercole.it):
a) “Sintesi del concetto di Razza nella dottrina e nel diritto pubblico” di Lorenzo La Via (da “Razza e Civiltà”, maggio-luglio 1941)
b) “Etruschi/Così il Fascismo ne cancellò le origini” di Sergio Frau (da La Repubblica”, 19 aprile 2001).
c) “Sedici indagati all’ombra dei nuraghi” di Maria Francesca Chiappe (da “L’Unione Sarda” 23 settembre 2004)
d) “Fordongianus/Terme poco sicure, visita dei carabinieri” di Nicola Pinna (da “L’Unione Sarda”, 23 settembre 2004)
e) “Sardegna, miniera d’antico” di Sergio Frau (da “La Repubblica”, 26 giugno 2000)
f) “Paestum: archeologhi in rivolta” di Sergio Frau (da “La Repubblica”, 3 marzo 1997)
g) Immagini dell’Anfiteatro romano di Cagliari (prima e dopo la copertura “provvisoria” - autorizzata - dalla Soprintendenza, che lo nasconde dal 2000).
* * *
Alla supplica di trattarmi almeno con la stessa serietà che, da sempre, utilizza con i suoi cocci, segue un lungo silenzio. Per tutta risposta la Papessa decide di mettere in rete soltanto la sua risposta. E che risposta! Non solo: per conoscenza la invia al mio direttore. Questa - dopo il cappello della mia risposta - la sua lettera datata 20 dicembre 2004, messa in rete dall’IIPP senza che a me fosse ancora arrivata. (È chiosata dalle risposte che le diedi il 19 gennaio 2005):

Gentile Professoressa Bietti Sestieri,
ho voluto far passare qualche giorno per ragionare con calma, raccogliere idee e documentazione, e soprattutto rimettermi dalla sorpresa e dal fastidio di trovare su Internet - al sito dell’ IIPP - una risposta a me indirizzata, senza che io avessi ancora ricevuto nulla di scritto da parte sua. Ho ritenuto che, forse, Lei abbia scelto questa procedura - insolitamente accelerata e pubblica - in modo da avviare al più presto (allargandolo a tutti) quel dia-logo e confronto tra le nostre posizioni che auspica nella lettera. Sia ben chiara una cosa: a me non interessa affatto che, per ora, mi sia data ragione da Voi come Istituto. Mi sta a cuore, invece, poter continuare a ragionare su nuove ipotesi di ricerca, e farlo con tutta la gente (studiosi, esperti di vario tipo, archeologhi, geologi, lettori, comuni mortali...) che stimo e che ritengo utili ad approfondire problemi che, finora, in pochissimi si sono posti. Ben venga, quindi, il confronto tra noi e, davvero auspicabile, una vostra collaborazione nella verifica di tante questioni irrisolte della Prima Storia Sarda. Le invio per e-mail questa mia (con tutto il resto della documentazione in modo che possa al più presto metterla in rete) permettendo così a chi vi “visita” di farsi un’idea completa del dibattito da Voi avviato. Cordiali saluti.
Stessa cosa farò io sul piccolo sito artigianale www.colonnedercole.it.
Cordiali saluti
Sergio Frau
IL PRESIDENTE

Firenze, 20 dicembre 2004 Prot. 7868
Dott. Sergio Frau
La Repubblica
Via Cristoforo Colombo 90
00147 Roma
e, per conoscenza
Dott. Ezio Mauro
Direttore di La Repubblica
p. Indipendenza 11b
00185 Roma

Caro dottor Frau,
la ringrazio molto per l’invio delle sue pubblicazioni, che in parte conoscevo, ma che mi ha fatto comunque molto piacere ricevere. Se fra i miei lavori di protostoria c’è qualcosa che le interessa, sarò lieta di ricambiare la sua cortesia. Il punto però, come entrambi sappiamo bene, non è questo, e vengo quindi alla lunga missiva che per mio tramite lei ha inviato all’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria.
(CHIOSA I. Gentile Professoressa, la “lunga missiva” era inviata proprio a Lei, e solo a Lei. Mi dia fiducia almeno su questo: so bene come inviare una lettera in copia ai consiglieri di un Istituto... Se non l’ho fatto è perché, allora, ancora speravo di evitarle un coinvolgimento in una storia che - sto accorgendomene sempre più - ha molto poco di scientifico).
Devo in primo luogo augurarmi che i giudizi contenuti nella sua lettera su noi dell’Istituto siano stati espressi in modo quantomeno affrettato: già alla terza riga ci dà degli ottusi oscurantisti, una definizione, ne converrà, che non si presenta precisamente come un invito alla pacata discussione fra studiosi; poco dopo si rammarica della nostra ‘imbarazzante leggerezza’ nel farci ‘inconsapevole cassa di risonanza’ di un’aggressione nei suoi confronti. Poi parla di una ‘scomunica ridicolmente sacralizzata dal nostro pulpito’, del nostro ‘autorevole quanto superficiale imprimatur’, del fatto che l’Istituto si sia affrettato a concedere sempre lo stesso imprimatur di fronte a ‘un pool di cervelli che può anche fare impressione’, della ‘copertura’ da noi concessa a comportamenti nefandi passati e futuri, della ‘sporca avventura in cui l’Istituto è stato trascinato’, di aver permesso che una ‘ridicola lamentela’ venisse lanciata dall’autorevole pulpito dell’Istituto, di aver perpetrato contro di lei un ‘linciaggio a cuor leggero’ e un ‘anatema per conto terzi’...
(CHIOSA II. Decontestualizzare le frasi e usarle poi come armi lo si può fare solo se, in contemporanea, si mette in pubblico anche il testo da cui sono tratte. Allora sì, che si gioca secondo le regole. Lei, per ora, non ha messo sul suo sito la mia lettera. E questo è assai grave. Alla terza riga, ad esempio, non è vero che vi do degli “ottusi oscurantisti”, proprio perché ci sono le altre due righe precedenti che rileggendole suonano così: “... Con amarezza sono costretto a chiederle un po’ del suo tempo per cercare di risolvere insieme la spiacevole situazione che si è venuta a creare e che rischia di striare di ottusità oscurantista l’immagine dell’Istituto da Lei diretto con tanta passione e serietà”. Si renderà conto della differenza... Del resto, rimango convinto che sposando quell’appello l’Istituto abbia fatto un errore grande. Cercavo, solo, di fargliene capire la genesi. Non ci sono riuscito, peccato... Ora lo mette in pubblico Lei. Sono comunque contento di non averlo fatto io).
Suvvia, caro collega, non le pare di esagerare?
(CHIOSA III. “Collega”? Non le pare di esagerare? So bene che la sua voleva essere di certo una gentilezza, una promozione sul campo... Purtroppo, invece, sono un giornalista, ma ben felice di esserlo, con tutti quei doveri e quei diritti di cronaca che - come le ho scritto - sono alla base di questo mestiere e di questa vicenda).
Non crede che esprimere in questo modo le proprie rimostranze di fronte a un dissenso scientifico non possa che ottenere un risultato opposto rispetto a quello da lei presumibilmente desiderato?
(CHIOSA IV. È quel che le contesto: che non di “dissenso scientifico” si stia trattando, ma di un “regolamento di conti”, striato di invidie, rancori e interessi. Che c’entrebbero altrimenti antropologi, medievisti, impiegati comunali, laureandi di terza età, con tutte le loro mogli, a sentenziare su maremoti e protostorie, mentre io sto ancora ponendo ai geologi interrogativi che nessuno finora gli aveva mai posto?).
Le posso assicurare che l’adesione dell’Istituto all’appello già sottoscritto da studiosi di varia provenienza è stata convinta e unanime, tanto che nelle diverse sedi nelle quali è stato presentato nessuno si è pronunciato contro di esso, e che molti soci dell’IIPP lo avevano già sottoscritto a titolo personale. Sollecitata dalla sua vibrante prosa, ho riletto l’appello con più attenzione, e devo dirle che ritengo che il dissenso scientifico venga espresso in modo assolutamente civile, con un tono e uno stile perfettamente condivisibili anche da chi non sia d’accordo su tutti i punti che in esso vengono toccati.
(CHIOSA V. Temo di aver fatto vibrare troppo la mia prosa se - sollecitandola, sollecitandola - non sono poi, però, riuscito a spiegarle che è proprio il fatto di esser stato presentato lì, nel suo istituto (e nelle lettere che stanno accompagnando in giro l’Appello) come “nemico delle Soprintendenze” che trovo diffamatorio e scorretto. E sì che gliel’ho pure detto che sono stato “nemico” di alcuni scempi fatti dalle Soprintendenze sarde. E sempre, invece, a favore delle Soprintendenze e del loro ruolo quando operano secondo gli scopi per cui sono state istituite).
E infatti credo che il nocciolo della questione non sia in realtà il dissenso - che pure molti di noi condividono - sulle ricostruzioni e sulle ipotesi che compaiono in particolare nei suoi scritti, ma anche in quelli di molti altri autori. Credo sinceramente che tutti noi siamo convinti da un lato della serietà con cui lei si è dedicato alla ricerca sulla protostoria mediterranea, della originalità di almeno alcune delle sue proposte e quindi della possibilità di condividerle; dall’altro del diritto di ognuno di esprimere e diffondere liberamente le proprie idee.
(CHIOSA VI. In tutta coscienza, Professoressa, Lei davvero crede che questo Appello - anche vostro, ormai - possa salvaguardare o facilitare “il diritto di ognuno di esprimere e diffondere liberamente le proprie idee”?).
Ciò che invece non può essere condiviso, e che purtroppo oppone, temo irrimediabilmente, la comunità scientifica dei preistorici italiani ad alcune sue posizioni, può essere sintetizzato in tre punti principali.
1 - Nessuno studioso della nostra disciplina può disporre quando crede di una cassa di risonanza per le proprie elaborazioni scientifiche paragonabile alle pagine della cultura di un quotidiano come La Repubblica. Questa innegabile rendita di posizione, della quale un giornalista come lei gode rispetto a qualsiasi normale studioso delle nostre discipline, dovrebbe essere messa da parte da chi cerca un confronto di idee alla pari; ma che un confronto di questo genere non sia in programma nel caso specifico è dimostrato semplicemente dal fatto che non è stato mai proposto, né da lei, né dal suo giornale. Nella sua lettera, come in molti suoi scritti che ho letto negli ultimi anni su Repubblica, lei esprime liberamente giudizi spesso sprezzanti su studiosi dai quali dissente o che dissentono da lei, mentre elogia regolarmente quelli che si dichiarano in qualche misura d’accordo con le sue idee. Nessuno potrebbe sostenere in buona fede che questo sia un modo corretto di condurre un dibattito scientifico.
(CHIOSA VII. Professoressa, queste sue righe - gravissime, offensive quanto fantasiose - per ora gliele passo: le voglio considerare come un suo incidente di percorso, e non come un motivo di querela... Diciamocelo, però, che la mia supposta “rendita di posizione” è un po’ come la sua: fatta solo di grandi sgobbate, alcune studiatone e qualche “merito” acquisito sul campo. Del resto, provi a rovesciare la sua ottica: mi dica se qualcuno dei molti giornalisti che si occupano del mondo antico ha mai avuto a disposizione un fior di Istituto come il suo che finanzia ricerche, pubblicazioni, convegni, decidendo pure consensi e scomuniche? E me lo dica se qualche giornalista l’ha mai rimproverata finora per questo? E ancora - sempre ragionando per simmetria, come se le nostre due posizioni/professioni fossero davvero commensurabili - non mi risulta di aver ricevuto alcun invito da parte vostra per illustrarvi le “antiche novità” saltate fuori dalla mia ricerca, come invece mi è successo a La Sapienza su invito del professor Andrea Carandini, al Suor Orsola Benincasa su invito del rettore Francesco De Sanctis, all’Università di Pavia etc. Errore mio, dunque? Sicura? O, piuttosto, disattenzioni vostre?).
2 - Non è possibile, tanto meno in un momento politico come quello attuale, sparare a zero sulle Soprintendenze Archeologiche (una o tutte fa lo stesso), sempre sotto l’ombrello protettivo del proprio giornale. Non faccio naturalmente commenti sulle accuse e sugli apprezzamenti negativi da lei rivolti in particolare a una delle Soprintendenze Archeologiche della Sardegna, che lascio interamente alla sua responsabilità.
(CHIOSA VIII. “Una o tutte fa lo stesso”? Un’assurdità! Una Soprintendenza/caricatura che massacra un anfiteatro romano (contro ogni criterio conservativo codificato a livello internazionale) e che, poi, permette anche di circondare con il cemento la più importante necropoli punica del Mediterraneo, è davvero come tutte le altre? Ci ripensi a questa frase infelice: sono sicuro che le è sfuggita. Visto che attribuisce importanza alle firme le allego fotocopia delle 7000 firme raccolte contro quello scempio perpetrato ai danni dell’Anfiteatro di Cagliari e, anche, un piccolo dossier di documenti ufficiali che le permetteranno di rivedere con cognizione di causa le sue posizioni sul Soprintendente che l’ha autorizzato).
Le Soprintendenze, un mondo che conosco bene e dal quale provengo, hanno molti difetti, e i cittadini e i giornali farebbero bene a chiedere cambiamenti, soprattutto una maggiore apertura verso il pubblico, le amministrazioni locali e gli altri studiosi e associazioni che sono interessati alla conservazione e alla conoscenza del patrimonio archeologico del paese. Ma non è possibile, soprattutto da parte di un giornalista che si è sempre occupato di cultura, ignorare che le Soprintendenze restano l’unico baluardo contro l’uso improprio e indiscriminato, se non la rapida distruzione, di questo patrimonio. Meglio, molto meglio una Soprintendenza imperfetta piuttosto che la tutela e la conservazione dei beni archeologici affidata solo a dilettanti di buona volontà, a volontari part-time e ad amministrazioni locali che nel migliore dei casi possono destinare all’archeologia risorse ancora più esigue di quelle dello Stato, e nel peggiore non sono in grado di resistere alle pressioni di costruttori e speculatori, quando non le condividono direttamente.
(CHIOSA IX. Su tutto ciò sono perfettamente d’accordo. Da sempre, però: non mi ha convinto ora, Lei. S’informi un po’ meglio su di me: mi è capitato più volte di scrivere a favore di queste sacrosante idee).
3 - L’amore per la propria regione, o nel caso specifico per la propria isola, è un sentimento bello e rispettabile; ma su questo terreno nessuna disciplina si presta come l’archeologia a un uso distorto di ipotesi e teorie che si dichiarano scientifiche. Non è necessario che le ricordi la storia recente e contemporanea per sottolineare il ruolo nefasto che un uso scorretto della documentazione e dell’informazione archeologica può avere nel suscitare nostalgie di paradisi perduti ed età dell’oro, e nel fornire il pretesto per rivendicazioni di superiorità culturale ed etnica e per aspirazioni autonomiste che sarebbe difficile giustificare altrimenti. Francamente, mi sembra che molte delle sue tesi si prestino, seppure non intenzionalmente, ad alimentare manifestazioni del genere. E’ precisamente questa una delle ragioni per cui considero assolutamente auspicabile un confronto scientifico aperto e serio, che metta un pubblico di non specialisti in grado di valutare la bontà delle teorie che gli vengono proposte e le pericolose implicazioni di una esaltazione acritica del proprio passato.
(CHIOSA X. Ma che genere di spauracchi mi sta agitando davanti? Che cosa le hanno mai raccontato di tanto fasullo, per spingerla a dire, ora, queste cose? Dovrei, quindi, tener sotto tono fonti, indizi, prove, risultati - che, peraltro, hanno suscitato interesse e consensi tra i migliori antichisti - per paura che pure i Sardi - come già altri “bambinoni” - si montino troppo la testa, perdano la trebisonda e si mettano a bere anche loro l’acqua sacra di un loro Po? Ma andiamo, un po’ di rispetto anche per le intelligenze altrui... Non si pongono questi problemi gli Inglesi che tirano a lucido Stonehenge, nè l’Unesco quando dichiara un sito patrimonio mondiale... Devo preoccuparmene solo io, perché i Sardi - secondo Lei - son gente strana? E, invece, se saltasse fuori un tempio a Siena, che cosa bisognerebbe fare? Ricoprirlo di nuovo per paura che i Senesi si insuperbiscano e dichiarino guerra a Firenze? E a proposito di paure per fantasmi del Passato: non la inquieta neanche un po’ una raccolta di firme contro un libro? Le ricorda nulla? Nell’ottobre del 1931 solo 12 professori universitari non firmarono il giuramento di fedeltà al regime fascista: una minoranza che aveva torto, la loro?
***
Mi scusi, Professoressa, se mi permetto ora questa chiarezza. Da Lei non mi interessano lezioni di “politicamente corretto”: le ho mandato per rispetto il mio libro e il catalogo con le recensioni perché - ormai coinvolta, da altri, in questo pasticciaccio - si facesse un’idea sulla mia ricerca. Se le è fatta? O no? Ne sa abbastanza della Sardegna, per dire la sua? Ho diritto di sentire geologi, o no? Posso continuare ad avere i miei dubbi su una versione che teniamo buona da secoli e che, però, ha sempre lasciato zone d’ombra nell’intero Mediterraneo? O no? Posso contare su eventuali perizie obiettive del suo Istituto? Questo è il punto focale, il “nocciolo della questione” come dice Lei. Altri non ce ne sono: o almeno non competono - in questa fase - né alla sua, né alla mia professionalità).

Spero di averle spiegato nel modo più chiaro possibile la posizione mia e dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. Mi auguro che voglia riflettere su questa lettera, considerandola per quello che effettivamente è: non un messaggio ostile, ma piuttosto un invito al confronto e al dialogo.
Con molti cordiali saluti
Anna Maria Sestieri

(CHIOSA XI. Chiaro che ci rifletterò sopra: sia Lei che io abbiamo grandi responsabilità, se non altro verso noi stessi e verso chi ci ha dato fiducia... Intanto voglio davvero considerare questo suo scritto - che, sinceramente, avrei letto molto più volentieri su carta, come risposta privata a lettera privata; e non squinternata su internet, prima ancora di riceverla... - come un vero “invito al confronto e al dialogo”. Non siamo in due, però a questo punto, vista la sua decisione... Per cui la prego di mettere in rete questa mia risposta fatta solo di chiose e anche la lettera privata del 10 dicembre 2004 che le avevo fatto avere (e che ora le riallego in elettronica, qui in coda) da cui ha estratto quei passaggi che risultano troppo velenosi - e lesivi del mio modo professionale di essere - se estrapolati dal contesto in cui erano stati usati. Sto anche preparando una risposta puntuale (nel senso punto per punto, per tutti i 21 punti) all’appello che - sempre in nome del dialogo - sono certo troverà ospitalità sul vostro interessantissimo sito. Sappia che a fronte delle 70 firme promotrici ci sono almeno 10 mila lettori - tanti, solo in Sardegna, hanno acquistato il mio libro - che seguiranno con grande interesse il dibattito: se non altro per sapere se li ho presi in giro io, o se invece è il “Gruppo dei 70” inadeguato al ruolo censorio che sta cercando di accreditarsi. Grazie e cordiali saluti.
Sergio Frau
* * *
Comunque: missione compiuta!
La “Scomunica” era ormai pubblica!
Il Mediterraneo era convocato!
Il pericolo, segnalato!
E, per di più, il tutto corroborato dalla tiratina d’orecchi - in rete - al giornalista un po’ naïf, che goffo goffo, credulone, un po’ coglione - diciamocelo - crede agli Antichi, insegue i miti sputtanati, critica soprintendenze, disturba i manovratori...
È ora! È ora! La Soprintendenza di Cagliari (o chi per lei) può finalmente affidare alla bella penna di Carlo Figari dell’Unione Sarda il resoconto e i risultati della spedizione fiorentina. E, infatti, il 23 gennaio 2005, a tutta pagina, la Cultura dell’Unione titola con soddisfazione:
“La Sardegna non può essere Atlantide”.
Sommario: “Oltre 250 studiosi contestano le tesi del libro di Sergio Frau”. “Lo tsunami di 3000 anni fa non poteva cancellare tutta l’Isola”
Svolgimento:
Le immagini dello tsunami che ha devastato la Thailandia e il Sud Est asiatico hanno colpito l’immaginario collettivo mostrando in tv la potenza distruttiva della grande onda. Quello che ha colpito gli archeologi, però, è stato il fatto che lo tsunami - nonostante l’immensa potenza - non sia andato oltre un paio di chilometri dalle coste. “Su questo particolare stavamo da tempo riflettendo ed oggi abbiamo la conferma scientifica che dimostra l’infondatezza dell’ipotesi che la Sardegna sia la mitica Atlantide. Non è pensabile che in tempi storici un’onda per quanto gigantesca abbia potuto seppellire l’intera isola allagando il Campidano per un centinaio di chilometri”.
A riaccendere le polemiche sulla tesi del giornalista-scrittore Sergio Frau e sul suo fortunato bestseller Le Colonne d’Ercole non è un singolo studioso, ma ben 250 tra archeologi, geologi, storici, filologi, glottologi, antropologi e professionisti di varie discipline, tra cui diversi sardi, tutti impegnati nello studio delle antiche civiltà del Mediterraneo.
Escono allo scoperto quasi in punta di piedi con un documento firmato da tutti e pubblicato su Internet (www.iipp.it aperto dall’Istituto Italiano di Storia e Protostoria di Firenze). Senza mai nominare Sergio Frau contestano in venti punti tutte le tesi che il giornalista di Repubblica ha raccolto nelle seicento pagine del saggio sulla mitica Atlantide. Il documento sintetizza un dibattito che si protrae ormai da due anni, che appassiona e che continua a scatenare polemiche. Anche alla luce delle mostre (l’ultima la scorsa estate nelle sale dell’aeroporto di Elmas) già presentate o che sono annunciate nel 2005. Una è prevista a Parigi col patrocinio dell’Unesco. “Premesso che ognuno può trattare e interpretare ciò che vuole come meglio crede” scrivono i 250 firmatari “è bene precisare che dal punto della ricerca scientifica, da cui noi non intendiamo prescindere, è importante fare alcune considerazioni su recenti operazioni massmediatiche intorno al passato della Sardegna”. L’elenco è in ordine alfabetico: primo firmatario Enrico Acquaro, prestigioso ordinario di archeologia Fenicio-Punica considerato l’erede di Sabatino Moscati. Seguono Alberto Agresti dell’Università di Firenze, il geologo Michele Agus del Cnr di Cagliari, l’antropologo Giulio Angioni e, via scorrendo, la gran parte degli specialisti dei due atenei sardi e delle Soprintendenze. Una presa di posizione ufficiale per fare chiarezza su un tema che ondeggia pericolosamente tra letteratura e saggistica. Perché Internet e non un congresso o un quotidiano nazionale? “Non vogliamo continuare sulla scia delle polemiche. Frau dalla sua ha una corazzata, che è il giornale La Repubblica, su cui ha potuto portare avanti e pubblicizzare le sue tesi. Noi vogliamo esclusivamente mettere dei punti saldi sulla ricerca senza altro fine se non quello di ribadire il primato della scienza sulle pur buone ragioni dell’immaginazione. Chiunque può accedere al sito Internet”.
Seppure mai citato è palese che il bersaglio del documento siano le tesi di Frau, ormai popolari grazie al successo del libro e al battage sui giornali. Si possono riassumere così: la Sardegna è la mitica isola di Atlantide citata da Platone e dalle fonti classiche. La chiave della “scoperta” è lo spostamento verso Est delle Colonne d’Ercole collocate impropriamente nello stretto di Gibilterra. In realtà andrebbero individuate tra la Sicilia e la costa africana.
Secondo i firmatari del documento solo sul piano della fantasia può essere divertente ipotizzare una identificazione con la mitica isola platonica di Atlantide, con l’immaginaria sede dei beati Iperborei, con l’Eden biblico e col mondo dell’aldilà della tradizione classica. In particolare Atlantide di Platone non è un dato storico riferibile a un determinato luogo e a un determinato tempo, ma solo una costruzione poetica e utopistica, a fini esplicativi, che affonda le radici in una serie di miti largamente diffusi nel mondo antico. La moderna ricerca archeologica evita il ricorso a cataclismi, invasioni e migrazioni come spiegazione risolutiva dei cambiamenti culturali e può accogliere tali elementi solo come fatti concomitanti nel quadro di ricostruzioni interpretative di tipo sistematico su scala geografica adeguata. Pertanto gli studiosi affermano che non esiste in Sardegna alcun indizio di un’ipotetica inondazione provocata da un fenomeno geologico verificatosi intorno al 1175 a.C. “Non esistono indizi di uno tsunami locale nemmeno nelle terre che circondano l’Isola lungo tutto l’arco costiero del Mediterraneo occidentale”. Riguardo alla civilità nuragica sottolineano che “non scomparve improvvisamente nel dodicesimo secolo e men che mai a seguito di un cataclisma”. Le prove? “Lo testimonia la grande fioritura in ogni angolo dell’Isola degli insediamenti riferibili alla fase denominata Bronzo Finale tra il 1200 e il mille a.C., a cui risalgono i manufatti nuragici rinvenuti a Lipari in associazione col contesto indigeno Ausonio II e con ceramiche micenee del Tardo Elladico”. Gli studiosi affermano che non è mai esistita un’età del Fango e una contrapposizione tra la Sardegna dei giganti abbattuti (cioè dei nuraghi distrutti del Campidano, della Marmilla e del Sinis) e una Sardegna dei giganti dell’interno. “A chiunque li osservi con un minimo di spirito critico appare evidente che tutti i nuraghi si presentino danneggiati in misura dipendente dai tipi di pietra impiegati, dai vari fattori di dissesto e infine dal plurimillenario prelievo di materiale lapideo per la costruzione dei fabbricati di età successiva, dai tempi dell’espansione fenicia a oggi”. Il segno sui nuraghi indicato da Frau come prova dell’allagamento provocato dallo tsunami (in realtà fu mostrato dalla trasmissione Gaia su segnalazione di un guardiano di Barumini che ne chiedeva spiegazioni a Mario Tozzi. Ndr) non è fango: “Quel che ricopre non solo i nuraghi ma anche le strutture erette durante i secoli precedenti sono i diversi strati di crollo e di ricostruzione, riferibili a molte fasi scaglionate nel tempo”.
Un’ulteriore prova è data proprio dallo scavo nella reggia nuragica di Barumini che, secondo Frau, sarebbe stata sepolta dal mare e dal fango: “Proprio qui emerge con assoluta chiarezza che gli strati di crollo del monumento e dell’abitato circostante ricoprono omogeneamente i resti delle strutture nuragiche e punico-romane realizzate in parte prima e in parte dopo la data della presunta inondazione”.
Infine non esiste in Sardegna alcuna traccia delle migliaia di cadaveri di uomini e animali che il presunto cataclisma avrebbe dovuto spiegare e di cui si immagina che siano stati recuperati a uno a uno dal fango e bruciati senza spiegare chi e come avrebbe potuto recuperarli. Resta il problema della dissoluzione della civilità nuragica, un fenomeno storico da indagare con ampiezza di metodi operativi e interpretativi, ma non è accettabile l’imposizione di un’unica soluzione precostituita. E neppure è condivisibile l’ipotesi del trasferimento in massa dei sardi nuragici sopravvissuti all’indondazione che sarebbero sbarcati in Italia dando vita alla civilità etrusca. “Ebbene, i rapporti tra i nuragici e gli etruschi sono comprovati ma solo a livello di scambi commerciali, di tecnologia, di matrimoni tra famiglie aristocratiche o di normali spostamenti di alcuni elementi umani, non certo per migrazioni di massa”. Sul piano scientifico è insostenibile - ribadiscono i 250 firmatari del documento - la recente revisione e deformazione del quadro storico dell’intera area mediterranea e vicino-orientale in cui si crea una sostanziale confusione per non dire identità tra Sardi, Etruschi, Fenici, Ebrei, Filistei-Pheleset, Shardana e altri Popoli del Mare in cui l’elemento sardo o presunto tale viene presentato sempre come determinante. Così viene svalutato il grandioso fenomeno storico della colonizzazione fenicio-punica, ricondotto a un unico centro propulsore individuato nella sarda Tharros. Nessuno degli studiosi firmatari dell’appello crede che la Sardegna antica fu isolata, arretrata e ignorata, ma nemmeno accetta “l’insostenibile slogan di una Sardegna origine e fine di tutte le civilità mediterranee”. Con il mito non si possono rinchiudere le sue vicende millenarie. (Carlo Figari)
* * *
Il giorno dopo - il 24 gennaio 2005 - l’Unione pubblicava in prima pagina un commento di Franciscu Sedda, autore di un bel saggio - imperdibile se si vuol conoscere la Sardegna - Tradurre la tradizione.
Titolo: “I Sardi e una disputa culturale/Inseguendo Atlantide”.
Il suo intervento:
“Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo. O meglio, è condannato a ripetere le sue perversioni. Lo hanno detto in molti e sicuramente qualcuno lo deve aver saputo anche in Sardegna: ma se ne è dimenticato. Del resto una parte dei sardi non ha ancora un gran rapporto con la memoria: diciamo pure che come collettività non sappiamo accumulare bene il tempo e non sappiamo diventare forti attraverso questa accumulazione.
D’altronde la Sardegna, la sua conformazione politico-identitaria, è stata fino ad oggi sconvolta da numerosi tsunami: non le onde d’acqua di questi tempi ben presenti nell’immaginario e al centro di un’aspra polemica a colpi di libri, articoli, lettere, punti fermi e liste firmate. Su quell’onda tanto controversa forse un giorno avremo più certezze e potremo dire con più serenità se qualcuna tempo fa si è abbattuta anche sulla Sardegna.
No, la nostra geologia intima è stata sconvolta da secoli di “tsunami culturali”, da onde apparentemente innocue ma interiormente devastanti. Onde capaci di umiliare, di deprimere, di togliere ogni fiducia in sé, di bloccare ogni spinta all’azione e al cambiamento, di levare il terreno sotto i piedi alla possibilità di un auto-riconoscimento collettivo del popolo sardo. È di questi tsunami dell’anima che si prendeva gioco il povero Sergio Atzeni, travolto da un’onda vera mentre cercava di resistere alle onde della meschinità intellettuale. Forse qualcuno lo ricorda mentre, passando leggero, irrideva gli storici sardi divenuti savoiardi che scrivevano la storia per convincere i sardi stessi che tutto erano, proprio tutto, fuorché sardi. E Atzeni non inventava o mitizzava: basta leggersi Manno e seguirlo nelle sue contorsioni retoriche e mentali, nelle sue goffe piroette da scrivano ufficiale, quelle che lo fecero arrivare a dire che in fondo se qualcosa di buono c’era nei “rozzi” nuraghi era perché in Sardegna ce li avevano portati i fenici. Sarà per questa servile genialità che la via più centrale di Cagliari gli è ancora intitolata? Quanto dovremo aspettare prima di poterla dedicare ad Atzeni? È questa strana storica perversione che ritorna e stona in questo appello intellettuale a stringere i ranghi contro un’immagine della Sardegna madre mediterranea, contro la “svalutazione del grandioso fenomeno storico della colonizzazione fenicia e punica” (così c’è scritto nell’Appello), contro i possibili entusiasmi dei sardi (così si lascia intendere).
Stona ed inquieta perché è una ripetizione di una ripetizione, soltanto più raffinata: riecheggia i padri dell’autonomismo sardo quando, incapaci di essere altro, nei primi decenni del 900 chiedevano ai sardi di prendere atto della barbaricità e pochezza dei Giudicati e di festeggiare i domini successivi, dai catalani in poi, come “un vero trionfo dell’intelligenza”.
Stona perché, è evidente, non si disputa se la Sardegna fosse Atlantide-Atlantide: si disputa sul fatto se la Sardegna sia stata “un’Atlantide”: vale a dire un posto di cultura e innovazione, un punto di riferimento per altri popoli, una collettività che partecipava al mondo in modo attivo, dando e prendendo, mischiandosi, cambiando e sempre rimanendo se stessa. Si disputa se il passato della Sardegna sia stato diverso dall’immagine triste e rozza che per secoli gli tsunami culturali auto-imposti ci hanno regalato. Si disputa in definitiva se ci sia stata e ci possa essere in futuro una Sardegna diversa da quella che c’è oggi, da quella che una parte dei sardi hanno tristemente interiorizzato. “Atlantide” qui è come la “Rivoluzione” per Kant: il simbolo grandioso e spettacolare di “una partecipazione di aspirazioni? un focolaio di entusiasmo”. Oggi non si disputa di Atlantide e del passato, si disputa della Sardegna e di noi stessi, della possibilità di scoprirci davvero”.
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Sempre l’Unione del 24 gennaio 2005 - in Cultura, su due colonne... - pubblicava questa mia breve replica: la mia prima risposta all’Assalto del Branco.
Titolo suggerito? “La Scomunica dei Chierichetti”.
Svolgimento:
Carissima Unione, gioisco vedendo finalmente materializzato, nero su bianco, l’Appello/Scomunica a cui - già da ottobre scorso - sta lavorando con insolita alacrità un Gruppo Promotore sardo assai vicino alle Soprintendenze di Cagliari e Sassari, presentandomi in giro a convegni e riunioni come “il Gran Nemico delle Soprintendenze d’Italia”, da neutralizzare con una raccolta firme. (Tutta la documentazione è consultabile sul sito www.colonnedercole.it : io stesso - presentato come sono stato presentato - avrei firmato contro quel “mostro” di Frau...). Contromossa furbissima, tempestiva e scientificamente ineccepibile, questa loro, visto che, proprio domenica 3 ottobre, non solo l’Unesco (e proprio dalle vostre pagine e per bocca di un suo eccelso rappresentante, l’Accademico di Francia, Azedine Beschaouch) ha annunciato di voler dedicare un’attenzione particolare alla Sardegna del II millennio a.C., portando nella sua sede di Parigi la mostra “Atlantikà” ad accompagnare un convegno internazionale dedicato al mio libro, ma anche - proprio in quegli stessi giorni - è stata auspicata (da più parti e da più studiosi di chiara fama) la creazione di un Centro della Prima Storia, che permetta anche a ricercatori internazionali di varia estrazione di ragionare con specialisti sardi - e con un approccio davvero interdisciplinare - sulle tante domande che ancora oggi la nostra Isola ci pone.
Perché, dunque, gioisco?
Perché sul sito dell’IIPP ho finalmente potuto anche vedere le firme raccolte nei “cento giorni” che bollano non solo come poco serio quel mio lavoro (che tanto interesse ha suscitato altrove), ma anche come favole quelle degli antichi testimoni: inventa Erodoto la sua Tartesso; inventa Platone la sua Isola di Atlante; inventa Omero la sua portentosa Isola d’Occidente... Il fatto che tra i 237 firmatari che quell’iperattivo Gruppo Promotore Sardo è riuscito a coinvolgere in questi 100 giorni non ci sia neppure uno studioso da me utilizzato (cioè considerato davvero utile) per ricostruire le vicende dell’antico Mediterraneo, mi tranquilizza assai. Mancano migliaia di nomi importanti, infatti, per intristirmi davvero. Ai quali aggiungerei - per il rispetto che ho dell’intelligenza del lettore “comune”, non specialistico - i 10 mila sardi che hanno acquistato il mio volume, e i 20 mila del continente che grandi soddisfazioni mi hanno dato e mi stanno dando. Il fatto che a “bocciarmi” alla “A” nella lista dei firmatari, ci siano Acquaro Enrico e Angioni Giulio, e non piuttosto Enrico Atzeni o Maria Giulia Amadasi; o che alla “B” ci siano il laureando Badas Ubaldo e il funzionario Bernardini Carlo e non l’Accademico di Francia Azedine Beschaouch o Jean Bingen, della Reale Accademia del Belgio (che ha recensito favorevolmente il mio libro sulla rivista ufficiale dell’Unesco); o - anche - che alla “C” siano stipati, stretti stretti, ben 14 collaboratori delle Soprintendenze sarde e non, invece, Luciano Canfora, Andrea Carandini o l’Accademico dei Lincei Vittorio Castellani (tutti studiosi che hanno manifestato pubblico, appassionato entusiasmo per le mie fatiche), be’, è davvero una grande soddisfazione... Diciamocelo: certi nomi, invece che altri - tipo che alla “L” non ci sia Giovanni Lilliu; che alla “M” non ci sia Attilio Mastino; che alla “P” ci sia un Pittau e non, invece, gente che stimo... - mi hanno fatto tirare un gran sospiro di sollievo. C’è - ci sarà, verrà trovato - tempo, modo e metodi giusti per farle crescere quelle grottesche firme contro un libro, è ovvio. A Napoli dicono “’o pesce fete da’ ’a capa” ovvero “il pesce si capisce dalla testa”: saggezza popolare di lì...
Dall’autorità assoluta di un paio di Soprintendenti, qui nell’isola, dipende la vita lavorativa di tanta gente: delle 237 firme raccolte 72 appartengono a collaboratori ufficiali di quelle due soprintendenze; altre 110 almeno, sono di persone che - con una delle soprintendenze contro - non riuscirebbero mai più a lavorare, a fare uno scavo, a presentare una ricerca, a pubblicare un articolo. E quanti, poi, dei 21 professori ordinari che firmano l’appello avrebbero avuto vita facile, non aderendo a quest’iniziativa speciale delle Soprintedenze sarde? E davvero hanno letto tutti il mio libro? Non oso neppure sperarlo...
Che fare, ora? Vogliamo indire, insieme, nuove libere consultazioni sulla serietà del mio lavoro? Garantendo il tutto, stavolta, con osservatori esterni, come in caso di dittature?
Ridicolo! Grottesco...
Sia chiara una cosa, comunque: da sempre - fin quando, almeno, furono usate per rovinar vite altrui - per scagliare scomuniche contro una tesi nuova e chi ha il coraggio di manifestarla - fatevelo dire da uno di Roma, ché noi in zona la sappiamo lunga - sono sempre stati indispensabili Pontefici Massimi. Qui - ammettiamolo... - siamo sì alla Scomunica: ma a una Scomunica di Chierichetti che, forse - come spauracchio, come intimidazione... - riuscirà pure a impedire nuove ricerche in Sardegna ma che, certo, rimarrà agli atti come una delle pagine più tristi scritte (e firmate) dalla cultura (?) sarda... C’è un’aria nuova in Sardegna. Qualcuno, però, non se ne è accorto: questi metodi, ormai, appartengono a un passato di mediocrità che cerca disperatamente di sopravvivere. Sergio Frau”.
Questa, dunque, la mia risposta all’articolo di Figari che, a gran voce, dava conto del “pregone”.

* * *

Avendolo però visto crescere man mano, a dismisura, quest’agguato del Branco, una volta letto con attenzione avevo preparato una risposta più affilata, di poche righe. Questa: «Visto dunque che nell’Appello non si contesta né si condanna la mia ipotesi su una prima postazione delle Colonne d’Ercole al Canale di Sicilia (che tanti, tanti altri ritengono assai plausibile), pregherei i firmatari di bollare come scemenze non le mie pagine ma quelle degli Antichi Autori che - con le loro testimonianze (lì riportate) - le hanno riempite. Quindi, Lorsignori se la prendano direttamente con Platone e la sua Isola Mito al di là delle “prime” Colonne d’Ercole; e con Omero con la sua Scherìa, lontana lontana nel Mar d’Occidente; e con Erodoto - che giura più volte di non sapere come finisca l’Europa ad Occidente - il quale con la sua Tartesso dei Mille Metalli e dell’Argento, al di là delle Colonne d’Ercole, viene trascinato da loro tutti fino in Andalusia, proprio dove finisce l’Europa ad Occidente. Con tutto il rispetto che questi firmatari meritano, mi scuso dunque se, dovendo io, a questo punto, scegliere se credere a Platone, Omero ed Erodoto o piuttosto a un Santoni, a degli Angioni, Bartoloni, Pittau & C, non ho dubbi: e scelgo i primi. Del resto com’era quella frase di Cicerone? Preferisco sbagliare con Platone, piuttosto ...».

* * *

Mi ero divertito a fabbricare anche un’altra risposta più circostanziata, punto per punto ai 21 punti della Scomunica, da mettere in rete. La Nuova Sardegna, vedendola in anteprima, decise di farne un paginone doppio, uscito il 25 gennaio del 2005.
Titolone portante:
La Battaglia di Atlantide
Sommario: «Frau replica alle accuse: “Il punto è un altro. Vi spiego dove e perché sbagliate”».
Cappello di presentazione:
Riportiamo il testo dell’appello contro le tesi di Frau pubblicato nel sito internet dell’IIPP. In tondo i punti in cui si articolano le obiezioni dei firmatari; in neretto corsivo le argomentazioni di Sergio Frau.
L’“Appello agli Studiosi di Scienze
dell’Antichità del Mondo Mediterraneo”
e le risposte di Sergio Frau

Archeologi, Geologi, Storici, Filologi, Glottologi, Antropologi, studiosi e professionisti di varie discipline, impegnati a vario titolo nello studio delle antiche civiltà del Mediterraneo e particolarmente della Sardegna, ritengono importante fare alcune considerazioni su recenti operazioni mass-mediatiche intorno al passato della Sardegna. Premesso che ognuno può trattare e interpretare ciò che vuole come meglio crede, è bene precisare che dal punto di vista della ricerca scientifica, da cui gli studiosi estensori di questo appello non intendono prescindere, è utile fare le seguenti precisazioni:

1. Solo su un piano di fantasia può essere divertente ipotizzare una identificazione della Sardegna con la mitica isola platonica di Atlantide, con l’immaginaria sede dei beati Iperborei, con l’Eden biblico e col mondo dell’aldilà della tradizione classica e cristiana;

Verissimo! Mi sono divertito molto - pilotato da un dubbio geologico - a verificare le fonti greche (non quelle cristiane) e a scriverne. A quanti di voi è già capitato di ricercare, scrivere qualcosa e, anche, di farsi leggere, poi, da qualcuno su pagine non pagate dallo Stato? Una sola chiosa (soprattutto per eventuali lettori esterni, chiarendo fin d’ora che non è mia intenzione convincere nessuno, ma solo invitare a ragionarci su): immaginaria dunque anche la roccia di Prometeo fratello di Atlante? E, quindi, anche quel suo Caucaso all’alba, in Oriente? Tutte fantasticherie quelle degli Antichi?

2. in modo particolare, l’Atlantide di Platone non è un dato storico riferibile a un determinato luogo e a un determinato tempo, ma è solo una costruzione poetica e utopistica a fini esplicativi, riconosciuta come tale già dal discepolo Aristotele, che affonda le radici in una serie di miti largamente diffusi nel mondo antico, radicati nella consapevolezza della fragilità delle conquiste della civiltà di fronte allo strapotere della natura e rafforzati dalla memoria di catastrofi naturali effettivamente accadute e documentate come l’eruzione del vulcano di Thera nelle Cicladi, tra il XVII e il XVI sec. a.C.;

Be’, veramente il mio Platone (uscendo dal Canale di Sicilia) è un po’ diverso da quello incomprensibile e inaffidabile che veniva interpretato fuori Gibilterra... Lui, comunque, fa dire proprio a Timeo: “... Purché i nostri discorsi non siano meno verosimili di quelli tenuti da altri, contentiamocene pure, ricordando che io che parlo e voi che giudicate, abbiamo natura umana: cosicché a noi basta, intorno a queste cose, accettare un mito verosimile, e non dobbiamo cercare più lontano... “. Tutt’altro metodo il suo, dal vostro. Tra lui e tutti voi - se permettete - continuerei a scegliere lui, se non altro per una questione di stile. Posso?

3. la moderna ricerca archeologica e storica evita il ricorso a cataclismi, invasioni e migrazioni come spiegazione risolutiva dei cambiamenti culturali, e può accogliere tali elementi solo come fattori concomitanti nel quadro di ricostruzioni interpretative di tipo sistemico su scala geografica adeguata;

A ciascuno il “tipo sistemico” che preferisce, mi accorgo di essere assai differente da voi, e non me ne farò un dramma. Liberi voi, libero io. O no?

4. quanto espresso al punto precedente vale in particolare per la dissoluzione delle organizzazioni politico-economiche esistenti nel Mediterraneo orientale negli ultimi secoli del II millennio a.C.;

Sorpresa: quindi ora siete gli unici al mondo che avete ben chiara quella che tutti, da sempre, chiamano l’ “Eta’ buia”. Complimenti!

5. sulla base dei risultati acquisiti in circa 200 anni dalla ricerca archeologica e geologica, è possibile affermare che non esiste in Sardegna alcun indizio di un’ipotetica inondazione, provocata da un fenomeno geologico ipoteticamente verificatosi nei mari circostanti la Sardegna intorno all’anno 1175 a.C.;

Da 200 anni, quindi, si cercherebbero tracce di maremoti per smentire quelle dieci pagine in cui io ne parlo? Oppure l’hanno fatto contro il geologo del C.N.R. Mario Tozzi che - dopo un check up in zona - ha ritenuto talmente interessanti quei miei punti interrogativi e l’ipotesi da dedicare un’intera trasmissione al problema? “Non c’è traccia” dite voi. Strano, però, che anche molti altri geologi ammettano che, per ora, si sa pochissimo del Mediterraneo d’occidente, e meno ancora dei suoi fondali.

6. non esistono indizi di una tale inondazione nemmeno nelle terre che circondano la Sardegna lungo tutto l’arco costiero del Mediterraneo occidentale;

Sicuri voi, sicuri tutti? Ma andiamo...

7. la civiltà nuragica non scomparve improvvisamente nel XII sec. a.C. e men che mai a seguito di un cataclisma: ci è testimoniato senza ombra di dubbio dalla grande fioritura, in ogni angolo dell’Isola, degli insediamenti riferibili alla fase denominata Bronzo Finale, che secondo i più recenti aggiustamenti cronologici occupa proprio il periodo compreso tra l’inizio del XII e la seconda metà del X sec. a.C. e a cui risalgono i manufatti nuragici rinvenuti sull’acropoli eoliana di Lipari in associazione col contesto indigeno Ausonio II e con ceramiche micenee del periodo detto Tardo Elladico III C;

Finalmente eccole le date che, da anni e anni, tutti aspettavano dalle soprintendenze sarde. Una domanda, però: come mai Giovanni Lilliu all’interno di Barumini trova roba del XII secolo a.C.? Come mai Raimondo Zucca legge (e scrive) Tharros “inspiegabilmente abbandonata nel XII secolo a.C.”? Come mai il laureando Badas nella “sua” Villanovaforru trova sotto il fango tanta roba del XII secolo a.C. da poterci riempire un museo? Come mai un mastodonte come il nuraghe S’Uraki diventerebbe “obsoleto” nel XII secolo a.C.? Come mai due terzi (25 su 37) dei nuraghe di Marmilla vengono abbandonati nel XII secolo a.C. come scrive la firmataria Emerenziana Usai? E - soprattutto - se la Sardegna era davvero così “fiorita” come voi dite, in che modo i Fenici riescono a impadronirsene?

8. non è mai esistita un’”età del fango” e non è mai esistita una contrapposizione tra la “Sardegna dei giganti abbattuti” (cioè dei nuraghi distrutti del Campidano, della Marmilla e del Sinis) e una “Sardegna dei giganti intatti dell’interno”: a chiunque li osservi con un minimo di spirito critico appare evidente che tutti i nuraghi si presentano danneggiati in misura dipendente dai tipi di pietra impiegati, dai vari fattori di dissesto (imperfezioni strutturali, agenti atmosferici e altri agenti naturali come le radici degli alberi, demolizioni intenzionali) e infine dal plurimillenario prelievo di materiale lapideo per la costruzione dei fabbricati di età successiva, dai tempi dell’espansione fenicia a oggi; ed è evidente che quest’ultimo fattore deve essere stato determinante proprio nel Campidano, nella Marmilla e nel Sinis, regioni agricole e povere di pietra da costruzione. Quel che ricopre non solo i nuraghi del Bronzo Medio e Recente, ma anche gli insediamenti del Bronzo Medio, Recente e Finale e dell’Età del Ferro, e perfino le strutture erette durante i secoli sopra e accanto ad essi, non è “fango”: sono invece diversi strati di crollo e di ricostruzione, riferibili a molte fasi scaglionate nel tempo;

Lo giurate voi? E se, per caso, le analisi dimostreranno che sbagliate? Che penitenza promettete? Dimissioni in massa? Se sbaglio io - in cambio - giuro che rimetto le Colonne a Gibilterra, vi lascio campo libero e non vi disturbo più.
9. se a puro titolo di esempio si considera il noto complesso nuragico di Barumini (dove gli scavi e i restauri continuano ancora oggi procurando informazioni perfettamente in linea con tutto quanto si ricava dalle numerosissime indagini compiute o in corso in tutta la Sardegna), emerge con assoluta evidenza che gli strati di crollo del monumento e dell’abitato circostante ricoprono omogeneamente i resti delle strutture nuragiche e punico-romane realizzate nel corso dei secoli, in parte prima e in parte dopo la data della presunta inondazione; anzi i resti particolarmente evidenti degli abitati del Bronzo Finale e della Prima Età del Ferro, successivi a tale ipotetico fenomeno, si conservano ben sotto il livello considerato come prova del ristagno conseguente all’inondazione, e che invece non costituisce altro che un labile segno di interruzione tra una campagna di scavo e la successiva;

La si deve considerare un’autorizzazione alla verifica scientifico-geologica del sito?

10. non esiste in Sardegna alcuna traccia delle migliaia di cadaveri umani ed animali che il presunto cataclisma avrebbe dovuto provocare, e di cui immaginando che siano stati recuperati uno per uno dal fango e bruciati senza spiegare chi e come avrebbe potuto recuperarli e bruciarli;

A parte questi macabri compiacimenti (tutti vostri, solo vostri: visto che io nel libro mi fermo alla geologia, per rispetto e pudore), a Ercolano e Pompei il primo consistente nucleo di corpi è saltato fuori solo una quindicina di anni fa, dopo secoli di scavi fatti da gente assai brava. Vi dice nulla questo?

11. al di là dei dettagli interpretativi, che restano legittimamente sottoposti alle discussioni e alle verifiche anche interdisciplinari, vi è sostanziale concordanza di principi, metodi e conclusioni tra gli archeologi pertinenti alle varie scuole e a diverse nazionalità;

Evviva! Sono davvero il primo, quindi...

12. la dissoluzione della civiltà nuragica resta un fenomeno storico da indagare con ampiezza di metodi operativi e interpretativi, peraltro già diffusamente applicati in Sardegna e vivacemente discussi col libero apporto di tutti gli studiosi interessati; non è accettabile l’imposizione di un’unica soluzione precostituita, per di più evidentemente inadeguata;

“Imposizione di un’unica soluzione precostituita”? Ma volete davvero scherzare? Non mi starete sopravvalutando? Io ho semplicemente fatto un libro (con ben 1792 punti interrogativi...) che è sul mercato: liberi tutti di leggerlo, non leggerlo, di crederci, o di non crederci; di incuriosirsi, di ragionarci sopra... O no? E’ esperienza affascinante realizzare un libro: chiedetelo ai cinque, sei del gruppo promotore sardo che l’hanno già vissuta.

13. nonostante le numerose indubitabili testimonianze di connessione tra la Sardegna e la fascia costiera medio-tirrenica durante le età del Bronzo e del Ferro, non è condivisibile l’ipotesi del trasferimento in massa dei sardi nuragici sopravvissuti alla presunta inondazione, nè un tale fatto potrebbe essere considerato evento determinante per la nascita della civiltà etrusca;

E chi vi ha mai chiesto di condividerlo? Avete istituito un vostro “imprimatur”? Un Sant’Uffizio che non so? E, pure: chi ha mai parlato di esodo di massa? Vi confondete: quello è Mosè, mica io... Mircea Eliade & C. insegnano (a chi li legge, però) che bastano delle élites che la sanno più lunga degli altri, per cambiare il mondo (avete presente gli Spagnoli e l’America Latina?). Sull’origine degli Etruschi, dunque, ora l’unica certezza sarebbe che non vengono dalla Sardegna? Complimenti: quante scoperte, e tutte insieme... Peccato che, poi, non siate in grado di spiegarci ancora come mai nel XII a.C. in Sardegna - e nel Mediterraneo intero - finisca il bronzo d’improvviso. E anche come mai sulle alture d’Italia nel XII a.C. nasca il ferro (sempre all’improvviso). E con etnie che si fanno seppellire con bronzetti, vasi (askoi) e molti altri segnali e reliquie (che per ora, però, non vi dico) a indicare la Sardegna come isola dell’Aldilà in cui esser traghettati da Caronte o chi per lui. Peccato anche che - dovendo proprio scegliere di nuovo - tra le vostre certezze e quelle di Strabone (“i Barbari possedevano l’isola - di Sardegna, ndr - e questi erano Tirreni; successivamente i Fenici di Cartagine imposero il loro dominio...”), di Esiodo (“quelli molto lontano, in mezzo alle Isole Sacre, regnavano su tutti gli illustri Tirreni”), di Platone (con la sua Isola di Atlante che governava “l’intera Tirrenìa”), di Plutarco (che, in “Vita di Romolo”, racconta del rituale dei Sardi venduti all’asta per celebrare una vittoria su Veio, spiegandocene subito dopo il suo perché: “perché si vuole appunto che gli Etruschi fossero coloni dei Sardi e Veio è, appunto, città dell’Etruria”), scelgo di nuovo loro e non voi. Liberi voi, comunque, di continuare a considerarli testimoni inattendibili, confusi o persino farneticanti.

14. pur con innovazioni a tutti i livelli e con apporti culturali di varia provenienza, non può essere posta in dubbio la fondamentale continuità della protostoria dell’Italia centrale tirrenica, dalle comunità protourbane del Bronzo Finale e della Prima Età del Ferro alle comunità urbane etrusche;

Quello che voi da decenni chiamate “bronzo finale”, per me è un periodo di “bronzo finito” e, pure, ormai talmente sacro da finire nelle tombe o nei templi. Dite: “non può essere posta in dubbio”... D’accordo con voi: dal XII a.C. In poi c’è continuità. Non prima! Ogni cambiamento (con i cento primi riposizionamenti sulle alture appenniniche: Perugia 493 metri sul livello del mare; Orvieto 325 slm; Arezzo 296 slm; Vetulonia 335 slm; Viterbo 326; Volterra 531; Chiusi 398; Siena 322; Marzabotto ...) Avviene dal XII secolo a.C. in poi. Come ve li spiegate voi tutti questi arroccamenti se non con una terribile paura del mare? Quale flotta, in quel periodo, poteva terrorizzare a tal punto gli Etruschi (popolo di mare e assai ben organizzato) da spingerli in posti così impervi e montani? Comunque c’è da brindare: avete risolto almeno uno dei tanti problemi.

15. una connessione diretta e organica tra la civiltà nuragica e quella protoetrusca ed etrusca è comprovata, ma solo a livello di scambi di beni di pregio, merci varie e tecnologia, a livello di matrimoni tra famiglie aristocratiche e di normali spostamenti di alcuni elementi umani, non certo di migrazioni di massa; ma questi apporti nuragici in Etruria non assurgono mai al rango di elementi costitutivi e identificativi della cultura locale che resta altra cosa, ben separata e distinta da quella nuragica;

Informatevi meglio, e poi rifletteteci sopra con onestà: troppa “Sardegna” nelle tombe etrusche di Caronte, il Traghettatore... Niente Etruria, invece, nelle tombe sarde...

16. Indipendentemente dalla presunta connessione dell’etnonimo “Tyrrhenòi” con le torri nuragiche, i nomi con cui gli Etruschi chiamavano se stessi (Rasna, Rasena o Rasenna) non hanno alcun riscontro nella toponomastica sarda e nella tradizione storica e letteraria concernente la Sardegna;

Ora - pur di sgambettarmi e far saltare la mia mostra che l’Unesco (per bocca di un accademico di Francia) ha invitato a Parigi - si vuol togliere agli Etruschi persino il nome di Tirreni? Si raccoglieranno altre firme anche su questo tema?
17. sul piano scientifico è insostenibile la recente revisione e deformazione del quadro storico dell’intera area mediterranea e vicino-orientale, in cui si crea una sostanziale confusione per non dire identità tra Sardi, Etruschi, Fenici, Ebrei, Filistei-Peleset, Shardana e altri “popoli del mare”, Kaphtor-Keftiu, Celti, e perfino gli abitanti della mitica e biblica Tarshish e i Feaci dell’omerica Scheria e in cui l’elemento sardo o presunto tale viene presentato sempre come predominante e determinante;

Va bene! Forse ho davvero esagerato: troppe novità vi hanno confuso. Cosa si può fare: rileggete il libro voi? Aspettate il prossimo? O devo rimettere tutto a posto?
18. E’ ugualmente inaccettabile la totale svalutazione del grandioso fenomeno storico della colonizzazione fenicia e punica, strappato alle sue origini culturali e linguistiche vicino-orientali e inesorabilmente ricondotto a un unico centro propulsore individuato nella sarda Tharros;

Quindi, voi, mi state dicendo - quasi “ex cathedra”, viste alcune firme - che sbagliava il Wagner a scrivere che Tharros un tempo era chiamata “Tzur”, proprio come la Tiro del Libano? E che quindi non è vero che ci ritroviamo dopo secoli di fronte a una “Tiro d’occidente” riapparsa a sorpresa proprio grazie alle mie ricerche? E anche che sbagliava Euripide quando fa arrivare le sue Fenicie in Grecia, dall’ “isola fenicia”, dall’ “onda tiria” “traversando il mar Ionio, oltre la stesa delle acque che volgono intorno alla Sicilia”? Be’, se lo dite voi che sbagliava - archeologi, geologi, storici, filologi, glottologi, antropologi & c. - che siete pagati da sempre per farcelo sapere, avrete pure le vostre ragioni... O no? Se sbagliate voi, però - e non Euripide - a quel punto che fate?

19. nessun archeologo ha mai espresso esplicito consenso per le ipotesi sopra ricordate, solo alcuni studiosi si limitano a esporre considerazioni e consensi limitatamente alla collocazione delle cosiddette “Colonne d’Ercole”;

“Si limitano”? “limitatamente”? “cosiddette Colonne d’Ercole”? Non starete sottovalutando un po’ - per sacrosanta antipatia - quei consensi pubblici firmati Beschaouch, Canfora, Carandini, Castellani, Donadoni, Tozzi & C.?

20. nessuno degli studiosi firmatari del presente appello crede che la Sardegna della preistoria, della protostoria e della storia sia stata isolata, arretrata e ignorata, ma nemmeno accetta l’insostenibile slogan di una Sardegna origine e fine di tutte le civiltà mediterranee o approva il tentativo di rinchiudere nel mito le sue millenarie vicende;

Bene! Così per una volta almeno, siete tutti d’accordo - su una cosa che, però, io non ho mai scritto - e la smetterete di sbranarvi là dentro, nell’isola e fuori. Quanto ai miti, e alla loro credibilità, un po’ più di rispetto! Uno che la sapeva molto più lunga di tutti voi, Massimo Pallottino, non la pensava come voi quando scrisse: “l’immagine dei fierissimi e semiselvaggi abitatori di caverne, che i romani snidavano con i cani feroci (ndr: nel I millennio a.C.), non si può confondere con quella dei ricchi e pacifici edificatori delle tholoi di Isili o di Ballao o dei sapienti artefici dei bronzi di Uta (ndr: del II millennio a.C.). In questo senso la saga dell’età dell’oro di Iolao, di Aristeo e di Dedalo, seguita dalla decadenza e dalla fuga sulle montagne, potrebbe aderire alla sostanza storica meglio di alcune generalizzazioni ricostruttive dei moderni”. Cos’è, questo vostro rifiuto del “mito”, un attacco al maestro? O era lui che già stava parlando di voi e di tutte queste vostre “generalizzazioni”?

21. su queste e su altre questioni e visioni si ribadisce il primato della ricerca scientifica sulle pur buone ragioni dell’immaginazione.

“Ricerca scientifica” solo del tipo vostro? O sono tollerati (e addirittura ammessi) anche altri tipi di ricerca scientifica? Fatecelo sapere, presto: in molti - almeno i 25 mila lettori del mio libro, più qualche altro curioso colto - vorremmo continuare a ricercare, interessarci e anche ragionare in libertà. Ci è concesso? O anche: vogliamo incaricare - tutti insieme, io e tutti voi quanti siete - l’IIPP, il Ministero dei Beni Culturali o il C.N.R. di far da padrino a una verifica geologica che ci dia un verdetto certo?
* * *
C’era anche un post scriptum che però venne tagliato in redazione. Era questo:

“Post Scriptum. Un consiglio al Comitato Promotore dell’Appello: usatele meglio le vostre firme e le vostre energie. In questi ultimi anni in Sardegna (e altrove) sono state lasciate sparire migliaia e migliaia di testimonianze del periodo che proprio voi dovreste studiare e proteggere. Sono state approvate e messe in pratica leggi per lo spietramento nei campi (in una zona strabiliante per i suoi menhir e circoli di pietra) che non hanno avuto la stessa attenzione che ora date a me. Dove eravate quando sono state approvate e messe in pratica le leggi per lo spietramento nei campi? E quando sparivano i nuraghe uno via l’altro? E quando si violentava a morte l’Anfiteatro? Tutti scempi che, purtroppo, non hanno avuto da voi la stessa attenzione che ora regalate a me? Spero che, ora - sistemato l’eretico - vi diate da fare anche su quel fronte: non vorrei - io da solo, con un solo libro - monopolizzare tutte le vostre energie a danno dei compiti veri che lo Stato vi ha affidato”.
* * *
Era nata in quei giorni una curiosità minima che, però, non potevo permettermi, impegnato com’ero a scrostarmi di dosso il fango da ufarolo strampalato che il Branco stava tentando di gettarmi addosso. La curiosità? Era sapere se lì in Sardegna quei funzionari - con l’intera Sardegna da accudire - non avessero proprio null’altro da fare se non fabbricare mostri fasulli, a cui dar la caccia, sprecandoci tempo, soldi, energie. Lo sfizio di appurarlo l’ho poi risolto grazie a una ricerca fatta negli archivi da Stefano Loi, che frugando nelle pagine dei quotidiani sardi - e zoomando proprio in quel periodo in cui le due soprintendenze sarde erano iperattive a firmare e raccoglier firme contro la mia ricerca - ha dato risultati inquietanti che verranno messi in rete: pezzi interi di Sardegna stavano sparendo sotto i loro occhi, nel più totale disinteresse. Qualche titolo a raffica - estratto solo da Il Giornale di Sardegna - fa sì da campionatura minima, ma stringe il cuore:

02-09-04. Tuvixeddu. Da custode dell’antica memoria cittadina a pubblico immondezzaio e rifugio di fortuna per senza tetto. In viaggio nei sotterranei della città i resti del passato e l’inciviltà moderna. Francesca Cardia; 08-09-04. Lanaittu il “paradiso” violato. La denuncia delle guide turistiche: un cimitero d’auto inquina il sentiero più bello e più amato dagli escursionisti. Gianbasilio Nieddu; 17-09-04;Caccia ai ladri di reperti. Sono tre i monumenti preistorici che hanno subito gli attacchi dei tombaroli. Si tratta dei nuraghi Siana, Casteddu e Paulelada. Due percorsi ufficiali Dei 73 siti nuragici di Olbia due fanno parte del percorso archeologico: la tomba dei giganti di Su Monte de S’Ape e il nuraghe di Cabu Abbas; 24-09-04. A Villagrande scompaiono i menhir. Siti archeologici derubati di pietre e reperti. I guardiani: i fondi per la tutela non bastano; 24-09-04. Archeologia da tutelare/ Il parco di Tuvixeddu bloccato dalle macerie. Residenti di Sant’Avendrace contro la ditta edile che ha ristretto le scale verso il colle e costruito sui reperti; 24-09-04. Olbia. Il museo archeologico inaugurato a marzo rimane un miraggio mentre l’umido deforma il parquet nuovo di zecca. L’autosalone al posto dei reperti. Giulia Eremita; 03-10-04. A Villagrande teppisti in azione fra i reperti. La denuncia della società Irei: mancano i fondi per la tutela; 19-10-04. In stato di totale abbandono i resti dell’acquedotto romano; 22-10-04. “Tombaroli in azione a Portoscuso” la denuncia di un consigliere comunale; 30-10-04 - questa è forse la più grottesca: proprio mentre i Chierici della Soprintendenza collezionavano adesione e mentre Alessandro Usai incominciava a mandar in giro lettera ed email con “la Sardegna (che non esiste) di Sergio Frau” - un intero paese...: 30-10-04. Raccolta di firme a Portoscuso per il nuraghe. Il paese chiede alla Soprintendenza di salvare dal cemento la struttura Portoscuso; 11-11-04. L’importanza archeologica del sito ha attirato l’interesse di studiosi di tutto il mondo. Ma non i soldi della Sovrintendenza. Samassi dimentica i suoi “Vandali”; 16-11-04. Le domus de janas di Nuraxi Figus in balia dei tombaroli; 03-12-04. Archeologia. Operazione “Eclesia” dei carabinieri: nove persone sotto inchiesta e 132 reperti recuperati. Indagato l’ex soprintendente Renzo Sanna: 14-12-04.“Pozzo Grande” rischia di sparire eroso dall’acqua...
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L’intera documentazione - dai tre quotidiani sardi - è in rete in www.colonnedercole.it
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I dogmi della Papessa - dal canto loro, ormai fossilizzati nelle sue risposte alla mia lettera privata, messi in rete sul sito IIPP (senza la mia lettera, però, per mesi), spediti al mio giornale, diffusi tra i suoi fedeli - offesero mezza Sardegna per la loro primaria, spocchiosa superficialità.
Mauro Manunza, sentì il bisogno di intervenire nelle pagine di cultura dell’Unione Sarda. Lo fece con gran brio e indignazione il 31 gennaio 2005.
Titolo: “La guerra di Atlantide”.
Il suo intervento:
“Il libro-inchiesta del giornalista Sergio Frau Le Colonne d’Ercole è pericoloso, politicamente eversivo. L’ipotesi che la Sardegna fosse punto focale delle civiltà mediterranee nel terzo millennio avanti Cristo, e che addirittura potesse rappresentare quella che poi sarebbe divenuta la mitica Isola di Atlante, rischia di montar la testa ai Sardi del terzo millennio dopo Cristo, risvegliando moti d’insensato orgoglio e scatenando tendenze rivoluzionario-separatiste.
Non è uno scherzo: questa singolare lettura del best-seller isolano proviene da una stimata studiosa che a Firenze dirige l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Anna Maria Sestieri. La grave preoccupazione è espressa in una lettera all’autore, cortesemente avvertito della possibilità che le sue tesi portino, “seppure non intenzionalmente, ad alimentare manifestazioni del genere”.
Ci sarebbe da sorridere, se la lettera fosse rimasta nei limiti di una qualsiasi corrispondenza privata - quindi confidenziale - fra mittente e destinatario; se non che è stata messa online nel sito dell’Istituto e, quindi, resa nota al mondo. Con buona pace dei Sardi, indicati sul palcoscenico della rete globale come teste calde, pericolosi autonomisti e, peraltro, scemi.
Scandaloso. Ma come è potuto accadere?
Occorre fare qualche passo indietro e sintetizzare una vicenda che rivela retroscena non meno sorprendenti. A cominciare - per dovere di chiarezza - dai punti essenziali delle tesi di Frau, il quale ha tratto dalla sua lunga ricerca tra un’infinità di fonti antiche e moderne, nel mito di ieri e nella scienza di oggi, alcune conclusioni date alle stampe nel suo libro: 1) le mitiche Colonne d’Ercole assai probabilmente vanno posizionate nel Canale di Sicilia, fra il Mediterraneo orientale e quello occidentale, e non nello Stretto di Gibilterra; 2) in conseguenza a questo “spostamento” si può credere che il mito di Atlantide (da Platone in poi) sia nato proprio dalle caratteristiche della Sardegna, potente isola che fino al XII secolo a. C. controllava la parte ovest del mare Mediterraneo; 3) alla civiltà dei Sardi, e alla stessa Età del bronzo, avrebbe messo fine una catastrofica inondazione (causata da un sisma sottomarino e, quindi, da un’enorme onda anomala sull’isola meridionale) attorno al 1175 prima di Cristo; 4) l’esodo in massa di isolani superstiti ha lasciato tracce in Egitto e in Toscana (Etruria). Tutto ciò sostenuto con ricchezza di dettagli e precisi punti di riferimento (oltre 1700 circostanze) che ovviamente non è possibile elencare in poche righe. Una ricerca attenta, condotta con metodologia scientifica a tutto campo, che va molto al di là delle risultanze rigidamente tecnico-archeologiche. Tant’è che uno stuolo di personalità del mondo scientifico ha discusso e continua a discuterne, allargando l’interesse e rendendo necessario un secondo libro (Atlantikà/Le Colonne d’Ercole: un bilancio, i progetti) che raccoglie decine di interventi, con nomi del calibro di Bingen, Braccesi, Canfora, Carandini, Castellani, Donadoni, Fo (Dario e Jacopo), Galimberti, Godart, Lilliu, Ribichini, Soueref...
Il geologo Mario Tozzi ha dedicato alle tesi di Frau un’intera trasmissione tv (“Gaia”, Rai3) recentemente replicata. La rivista “Diogène” dell’Unesco ha dedicato un intero numero all’argomento (in francese, inglese, tedesco, italiano, spagnolo, cinese...) e la stessa Unesco ha patrocinato la ricerca decidendo di organizzare a Parigi, nel prossimo aprile, la mostra “Atlantikà” che è rimasta allestita per tre mesi nell’aerostazione di Cagliari e poi a Milis. L’iniziativa dell’organizzazione dell’Onu per il patrimonio mondiale è, nientemeno, del direttore generale per la cultura (Mounir Bouchenaki), confermata da suo principale collaboratore (Azedine Beschaouch, accademico di Francia, archeologo e storico di statura internazionale). Tanto inconsueto interesse per il libro di un giornalista ha spiazzato non pochi ricercatori dell’ambiente scientifico ufficiale, e in particolare quelli della Soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano dalle cui scrivanie sono partite curiose contromosse: prima la vana richiesta al sindaco di Milis (sito di un importante nuraghe) di non ospitare la mostra “Atlantikà”; quindi un appello contro Sergio Frau. L’”Appello agli studiosi di scienze dell’antichità del mondo mediterraneo” presenta Le Colonne d’Ercole come una fantasiosa inchiesta propagandata come un testo di rilievo scientifico, “purtroppo con l’avallo di alcuni studiosi, quasi tutti non sardi e non conoscitori degli studi archeologici e geologici condotti in Sardegna negli ultimi cinquant’anni”. Grazie a ciò, “Frau conduce una campagna di mistificazione e denigrazione ai danni di tutti i ricercatori operanti in Sardegna e soprattutto ai danni delle Soprintendenze archeologiche”. Le tesi del giornalista vengono contestate attraverso 21 punti, ampiamente illustrati sull’Unione Sarda.
I promotori hanno poi fatto girare l’appello fra le Soprintendenze, fra i collaboratori archeologi, tra alcuni enti e facoltà universitarie, raccogliendo quasi 240 firme tra la Sardegna e la penisola. Frau ha replicato con un contradditorio punto per punto, facendo osservare fra l’altro, non senza stupore e un po’ d’ironia, che “in questi ultimi anni in Sardegna (e altrove) sono state fatte sparire migliaia di testimonianze del periodo che dovreste studiare e proteggere” e che “sono state approvate e messe in pratica leggi per lo spietramento dei campi (...) che non hanno avuto la stessa attenzione che ora date a me”. In proposito, Frau avanza il sospetto che si cerchi di “sgambettarmi e far saltare la mia mostra che l’Unesco, per bocca di un accademico di Francia, ha invitato a Parigi”. Il giornalista ha inviato anche una lettera di osservazioni alla direttrice dell’Istituto italiano di preistoria e protostoria, cui era stato indirizzato l’appello della Soprintendenza cagliaritana. Ed è a questo punto che alla prima sorpresa si è aggiunta la seconda. Ecco che cosa ha scritto fra l’altro la responsabile dell’istituto fiorentino, Anna Maria Bietti Sestieri: “L’amore per la propria regione, o nel caso specifico per la propria isola, è un sentimento bello e rispettabile; ma su questo terreno nessuna disciplina si presta come l’archeologia a un uso distorto di ipotesi e teorie che si dichiarano scientifiche. Non è necessario che le ricordi la storia recente e contemporanea per sottolineare il ruolo nefasto che un uso scorretto della documentazione e dell’informazione archeologica può avere nel suscitare nostalgie di paradisi perduti ed età dell’oro, e nel fornire il pretesto per rivendicazioni di superiorità culturale ed etnica e per aspirazioni autonomiste che sarebbe difficile giustificare altrimenti. Francamente, mi sembra che molte delle sue tesi si prestino, seppure non intenzionalmente, ad alimentare manifestazioni del genere. È precisamente questa una delle ragioni per cui considero assolutamente auspicabile un confronto scientifico aperto e serio, che metta un pubblico di non specialisti in grado di valutare la bontà delle teorie che gli vengono proposte e le pericolose implicazioni di una esaltazione acritica del proprio passato”. Anche questa sconcertante dichiarazione politica - che pare concepita nei più oscuri corridoi governativi romani - è stata messa in rete dall’IIPP. Il giornalista a quel punto ha chiesto che l’intera polemica fosse resa pubblica nei siti online: comprese le proprie osservazioni. Anche perché sono quasi due anni che Frau corre da una parte all’altra dell’Italia, coinvolto in un dibattito che altro non è stato finora se non “un confronto scientifico aperto e serio” come vorrebbe la distratta dottoressa Sestieri.
Alla fine ci ha pensato lui a mettere in rete appelli, lettere, requisitorie e controdeduzioni, e da qualche giorno tutto è accessibile a tutti (www.colonnedercole.it). Vi si legge anche lo stupore del giornalista per le considerazioni sui sardi teste-calde (replica: “Ma che genere di spauracchi mi sta agitando davanti? Che cosa le hanno mai raccontato di tanto fasullo, per spingerla a dire, ora, queste cose? Dovrei quindi tener sotto tono fonti, indizi, prove, risultati per paura che pure i Sardi si montino troppo la testa, perdano la trebisonda e si mettano a bere anche loro l’acqua sacra di un loro Po? ...Ma andiamo, un po’ di rispetto anche per le intelligenze altrui. Non si pongono questi problemi gli inglesi che tirano a lucido Stonhenge, né l’Unesco quando tutela un sito patrimonio mondiale. Devo preoccuparmene solo io, perché i Sardi sono gente strana? E se saltasse fuori un tempio a Siena, che cosa bisognerebbe fare? Ricoprirlo di nuovo per paura che i Senesi si insuperbiscano e dichiarino guerra a Firenze?”.
Fuori dalla mischia, una sola considerazione: non si ricordano altre prese di posizione così allarmate nei confronti di una ricerca condotta fuori dell’ufficialità e delle burocrazie ministeriali; né si era mai sentita, dai tempi della dominazione piemontese, una così scandalosa considerazione dell’intelligenza dei sardi.
Perché tanta paura del libro di Frau?”.
Mauro Manunza
* * *
E sì: quel Pool di Cervelli raggrumato intorno a Santoni & C. era riuscito d’incanto a fabbricare il più possente boomerang nuragico mai neppure immaginato. Gli tornò contro - tra capo e collo - pochissimo tempo dopo. A parte la volgarità di “bandire” un libro, l’altra cosa di quel loro Appello che stupì di più - vedendole così liofilizzate, punto per punto - furono le “certezze” dei firmatari: traballanti, incomplete e, però, assertive, supponenti, sparate a raffica. È così perché è così! È così soprattutto perché lo diciamo noi! E noi siamo noi e tu - con i tuoi lettori - non sei niente!
La Roma (con i suoi Belli, i Marchesi del Grillo & C.) sintetizzò questo atteggiamento meglio di tutti: “Perché ho ragione io e voi no? Semplice: perché io so’ io, e voi nun siete un c...”.
Alla faccia del dialogo...
Una delle pagine più goffe - e meno scientifiche - della ricerca archeologica italiana!
Non solo: dopo suppliche e, alla fine, minacciando persino di adire a vie legali, il sito dell’IIPP - per più di due mesi monopolizzato solo dalla Scomunica e dalla rispostaccia pubblica data dalla Presidentessa alla mia lettera privata - fu obbligato a creare un link con www.colonnedercole.it dove era in rete - a quel punto - l’intera, sconfortante documentazione sugli scempi di Santoni & C., i suoi baratti e la cronistoria completa della faida.
Sarà stato per questo che, poi, l’intero Mediterraneo ha risposto picche, aggiungendo soltanto un’altra quarantina di firme a quell’Appello? E la prosssima volta che l’IIPP griderà “al lupo! al lupo!” in quanti gli daranno retta?
Risultato? Il libro sulle Colonne - soprattutto in Sardegna, ma un po’ ovunque - richiese due nuove ristampe. Addosso - insieme all’imbarazzo di chi, per quieto vivere, non osava schierarsi - mi arrivò una solidarietà calda, indignata, turbata da parte di centinaia di lettori. E segnalazioni. E documenti anche spiazzanti: come l’intero incartamento sull’Anfiteatro violato, abusato, snaturato - con i 270 milioni in ballo per Santoni & C. - che, prima o poi, il Ministero dei Beni Culturali o qualche magistrato dovrà guardare con la calma e l’attenzione che merita.
Molti altri, però, purtroppo tacquero.
Ogni tanto, in quei giorni, qualcuno - mai sentito prima - si svegliava con l’irresistibile smania di continuare il tiro al piccione dalla rubrica delle lettere nei quotidiani sardi.
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Non risposi più.
Tenni duro: ma non risposi più. Neanche quando un antropologo dell’Università di Cagliari, Giulio Angioni, si prese la briga di lanciare un strano avvertimento al Presidente del Consiglio Regionale sui rischi di una sua visita a Parigi - in occasione delle iniziative Unesco sulle mie ricerche - mi lasciai coinvolgere da nuove beghe. Ora che si sta facendo cronistoria, però, che cronistoria sia!
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C’è gente in Sardegna che davvero vale la pena di conoscere e di far conoscere, ché sennò l’Isola la mitizzi e non si riesce a capirla mai del tutto. Gente che sennò - se non gli si accendono i riflettori addosso - rischia di sparirti nel sottobosco dei poterini locali, o nel gorgo del mercato librario, o insabbiato nei disastri paludosi delle leggi di mercato editoriale.
Affrontare le librerie con il tuo lavoro - immergerti in quei banconi pieni zeppi di titoli non tuoi - è una sorta di ordalia: puoi sopravvivere, uscirne assolto, rafforzato, rivivificato. O anche frustrato, bilioso, infelice: cattivissimo.
L’Ennio Flaiano che si divertiva con le parole - suoi i “carciofini sott’odio” - diagnosticò le ripercussioni di azzardi librari del genere con una sola efficacissima frase: «L’insuccesso gli ha dato alla testa»...
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Per Angioni Giulio, un professore di antropologia dell’Università di Cagliari con la passione della scrittura, l’ordalia ultimamente - negli ultimi sette anni - è andata assai male. Ironia della sorte, poi, si era inventato il paesello di Fraus, una specie di “Macondino” tutto suo, per affollarlo man mano con tutte le fantasticherie e i gerundi dei ritagli di tempo.
Scoperto dalla Marsilio, riseppellito subito dopo da terribili flop con Feltrinelli, è però ormai un “nome”, in Sardegna. Anche un soprannome, però: chi non lo ama l’ha ribattezzato da anni: «Macondo, ma non posso».
Dove prendi prendi, però - tra i libri delle banche, tra gli autoritratti dell’Isola, nelle cricche spartitorie del piccolo potere culturale locale, nelle rivistine di accademia e di categoria - lui c’è quasi sempre: lingua, tradizioni, premi letterari, seminari, giurie. Parla a nome dell’Isola.
Lui & Moglie & C. - doppia, tripla tariffa: ma nessuno, finora, ha mai fatto i conti come si deve - li si incontra qua e là a dir la loro, a pagamento, in mille occasioni.
No, non siamo alle perfezioni di Ghino di Tacco che chiedeva il pizzo per far passare sotto la sua rocca...
E neppure, in Sardegna, c’è la Piovra, il mostro siciliano...
No! In Sardegna una Piovra da combattere a viso aperto, non c’è.
Ci sono, però, Seppioline & Pulpitielli: si muovono in camarilla, buttano nero, sporcano l’acqua, la infettano, mettono i loro tentacolini dove possono, si premiano a turno l’un l’altro, e però, poi, corrono a nascondersi e così - acquattati nei loro barattoli lucenti - non ti permettono neppure di rendere non dico epica, ma almeno civile, utile e dignitosa, una disfida culturale.
(La moglie di questo Angioni è una certa Marinella Lorinczi. Anche lei, firmataria dell’Appello contro la mia faticaccia d’Ercole, anche lei vigile e censoria quanto basta; anche lei intervenuta con una letterina al nero di seppia spedita ai giornali che - pubblicata sotto il titolo: «Atlantide. Miti e verifiche/ La vera ricerca si fa valutare» - impastava insieme per amor di scienza i pericoli nascosti dietro i miti, fondendo insieme lo scandalo ottocentesco dei falsi documenti medievali di Arborea, il caso di certi bronzetti fasulli e - colpo di seppia: la “teoria atlantidea-tsunamica”. Minimo comun denominatore? Erano tutte “contraffazioni consapevoli e lucrative”... Che possa saperne lei di queste ricerche mie, è quasi un mistero: prima storia e nuova geografia non sono certo temi suoi... Lei ha da sempre una divorante passionaccia per il Conte Vlad, Dracula il Vampiro a cui ha dedicato più di uno studio. Con Giulio Angioni fu amore a prima vista).
Alla vigilia della Giornata Unesco dedicata alla ricerca sulle “prime” Colonne d’Ercole - mentre correvamo su in auto al convegnone di Parigi per allestire la mostra “Atlantikà: Sardaigne, Ile Mythe” - ho avuto l’onore di essere azzannato da un rabbiosissimo intervento di Giulio Angioni.
Fino ad allora, Angioni, non l’avevo mai sentito neppure nominare. Ed eccolo, invece, che - poche settimane dopo la letterina della moglie - anche lui mostra i denti e mi morde dal Giornale di Sardegna del 7 aprile 2005. E siccome la mostra era nata grazie all’aiuto di Efisio Serrenti, Tore Sanna e Gherardo Gherardini, della Presidenza del Consiglio regionale precedente, per il timore che il nuovo Presidente Giacomo Spissu si lasciasse ammaliare dai ragionamenti del libro e dell’expo, eccolo Angioni che si fa protettore della integrità culturale del suo Presidente.
Il tono scelto per farlo è davvero offensivo, intollerabile: non tanto per me e le mie ricerche (sulle quali Angioni non ha davvero titoli di nessun tipo per poter dare giudizi seri che mi interessino) ma verso il malcapitato Spissu, usato e messo lì, nell’articolo, alla berlina, come uno un po’ naïf, che - senza la linea fornitagli da Angioni - sarebbe ancora tormentato a macerarsi, non sapendo che fare: vado? non vado? vado?
Angioni - leggerete - lo spaura con paroloni e minacce. Un po’ come la nonna di Cappuccetto Rosso, quando avverte la nipotina ingenua che il bosco è buio buio e pericoloso assai... Un po’ come il nonno di Pollicino, quando avverte il nipote di non toccarsi lì: ché, poi, si diventa ciechi, ci si rovina la vista. Come mai un uomo politico - che non conosco - abbia potuto incassare un avvertimento pubblico così volgare, striato da supponenze del genere: «Guarda come son buono, Presidente: te lo spiego io Platone, in due parole...» - senza rispondere, con un: «Pensa per te, Angioni, ai tuoi mille e mille problemi: ché son già maggiorenne, vaccinato, ho fatto buoni studi e non ho certo bisogno di te a farmi da monachella istitutrice», rimane un piccolo mistero.
Titolo: “Al presidente Spissu che va a Parigi”
Firma: Giulio Angioni, antropologo, scrittore.
Svolgimento:
Il presidente del Consiglio Regionale Giacomo Spissu è incerto se è bene per lui andare a Parigi all’inaugurazione della mostra “Atlantikà: Sardaigne, Ile Mythe”, data la disparità di pareri sulla mostra già vista all’aeroporto di Elmas, con Dario Fo e Franca Rame che s’involano coi fenicotteri sullo sfondo di nuraghi e lagune smeralde di oggi e di millenni fa.
Credo che farebbe bene a non andarci.
So però che non saprà rinunciare alla vetrina offerta dall’Unesco. Allora, presidente, mi permetta un consiglio. Vada a Parigi con almeno il sospetto che questa ennesima atlanticheria che ci concerne come sardi sia l’ultima delle oltre ventimila risoluzioni del mistero di Atlantide che non ha nessun bisogno di decriptazione. Atlantide è solo una favola o parabola inventata da Platone a fini esplicativi in un discorso filosofico. Da allora Platone è riuscito a ispirare riaffabulazioni su Atlantide a non finire. Anche Totò ci ha fatto un film. Il vero mistero di Atlantide è che è stata, almeno dalla scoperta dell’America, una mistica trappola per furbi in malafede e per ingenui in buona fede, che più volte l’hanno identificata con la Sardegna e con centinaia di altri luoghi. Un tempo il megafono del mito ce l’avevano i profeti (e qualche volta i filosofi), oggi i giornalisti. Infatti prima i miti duravano millenni, oggi qualche giorno. La mostra e il libro da cui deriva non dicono nulla su Atlantide che non sia già stato stradetto negli ultimi secoli e soprattutto negli ultimi due. E’ misera poi la furbata che comunque ciò farebbe bene alla Sardegna, perché proporsi di identificare Atlantide con qualunque luogo reale è come proporsi di identificare l’isola di Utopia di Moro, la tomba di Renzo Tramaglino, la Città del Sole di Campanella, oppure identificare la Palude Stigia con lo stagno di Santa Gilla, il bue marino con Moby Dick, il Paese dei Balocchi con l’Asinara. Ora lei vada pure a Parigi, ben sapendo però che non è facile infinocchiare i parigini su Sardegna-Atlantide, in una città che vanta riaffabulatori della favola di Atlantide del calibro di Jules Verne e Pierre Loti. Vada pure a Parigi, sapendo però contare sul fatto che qui in Sardegna siamo in parecchi che per amor di patria le copriamo le spalle, che sappiamo cioè che si tratta del solito gioco del pinta la legna e mandala in Sardegna, stavolta con l’azzardo di farla anche ai parigini, che non hanno il nostro bisogno di miti identitari preistorici. Vada pure, presidente. Sappiamo che lei sa che anche i pastrocchi hanno le gambe corte, e che alla mala parata saprà cavarsi d’impaccio contando sui sardi che non hanno bisogno di fare torto a Platone e alle buone ragioni della mitopoiesi per sentirsi sardi à part entière, come dicono a Parigi. Grazie a loro, presidente Spissu, non corre il rischio di assistere un giorno alla presenza di Berlusconi, di Cossiga e del nuovo papa, all’incoronazione a re di Sardegna-Atlantide, nel salone d’onore di Villa Certosa (che ingloba l’antro di Polifemo con resti di escrementi di Ulisse e di spermaceti della Balena Bianca travolta dallo tsunami distruttore di nuraghi), dell’ultimo superstite dei sardi-atlantici scovato ad Arzana con un DNA unico e irripetibile. Io da parte mia tengo per certo che sono nato in Sardegna-Sardegna, in Trexenta, dove ci permettiamo al massimo l’iperbole etimologica che un tempo lì ci fossero trecento paesi e il grano rendesse il trecento per uno, e solo ai bimbi si racconta che a Pranesanguini San Giorgio a cavallo con la spada d’oro ha trafitto il drago”. (Giulio Angioni)
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Talvolta l’ordalia non basta...
Provare con un esorcismo?
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Davvero imbarazzante, lì a Parigi - dove gli uffici stampa funzionano davvero e il giorno stesso avevano copia di quel velenoso scritto sbeffeggiante l’Unesco, Accademici di Francia, Accademici dei Lincei, e, pure, con infantile livore un Nobel della Cultura (Dario Fo e Franca che, peraltro, mai hanno visitato la mostra) - dover spiegare al direttore generale dell’Unesco, e agli altri convegnisti insomma arrivati lì per ragionare sulla Conoscenza del Mondo antico, che quella robaccia era solo succo - e fiele, e bile, e mal’animo - di un ricercatorello sardo, in preda a una crisi di nervi.
Si decise, poi, di inviare copia dell’intero “Dossier Angioni” (con i dati di vendita dei suoi libri; l’elenco dei suoi incarichi locali; il suo pregoncino di avvertimento alla Presidenza della Regione in copia) al Centro di Ricerca Sigmund Freud. In allegato - per chiarire davvero la personalità del soggetto - insieme a quel detto sardo (“In Sardegna ne uccide più l’invidia che la mal’aria”), e a quell’altro quasi autobiografico, assai pertinente, riportato a pagina 45 del libro Proverbi Sardi del canonico Giovanni Spano da lui curato (“Anzone. Logodurese: Angioni (...): Un anzone/angioni guasta totu su masone. Ital.: Una pecora marcia, guasta un branco...”) - anche alcune sue messe a punto “antropologiche” sulla Sardegna.
Una per tutte, l’ho estratta dallo sciattissimo intervento che il professore ha pubblicato - con frasi intere ripetute identiche a distanza di poche righe, come se, annoiato, neppure avesse riletto le bozze di se stesso; come se annoiati all’Einaudi i redattori non l’avessero riguardato tutto quel suo intervento - in La Sardegna edita da Giulio Einaudi, testo base per presentare l’Isola agli studiosi non sardi e suscitare interessi etnografici fuori dalla cerchia locale.
Le feste dei Sardi? Eccole qui, firmate Angioni:
«La sartiglia oristanese appare un agglomerato di resti di riti e di concezioni religiose di varia origine e antichità. Anche per questo è stato oggetto di curiosità erudite e di dispute etimologizzanti e funzionalistiche, dal frazerismo al freudismo. Ma oggi è soprattutto uno spettacolo per turisti, come la sfilata di Sant’Efisio a Cagliari, quella del Redentore a Nuoro, la Cavalcata Sarda a Sassari e altre ancora».
Come dire all’Internazionale degli Antropologhi: “Solo spazzatura per turisti scemi, colleghi, qui da noi: inutile approfondire...”.
Esser stato bocciato da questo bilioso bulletto, in così buona compagnia - con la Sartiglia (un torneo che - strato su strato, simbolo su simbolo - riporta dritto a Bisanzio e anche molto più indietro, in un gioco di specchi tra Est e Ovest ancora tutto da indagare con cura e cultura) e Sant’Efisio (la processione più lunga del mondo, dove tutte le genti della Sardegna sfilano per tre giorni, con i loro costumi-capolavoro, tanto che ognuno meriterebbe un libro) - è un onore davvero insperato.
Non ha voce. Non ha testa. Non ha parole. Non ha stile.
Perché parla? Perché scrive? Perché s’affanna? Poveraccio...
Come si permette di far lui le veci della Sardegna?
Dal Sigmund Freud non hanno ancora risposto.
Lo faranno mai?
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Ultim’ora: un dubbio. Forse una diagnosi.
Settembre 2006: quasi in contemporanea - stereofonico - Angioni ridice la sua. Lo fa sia su La Nuova Sardegna del 14 settembre 2006 dedicandosi a Niffoi, che sul numero 74/75 de Lo Straniero, il periodico diretto da Goffredo Fofi, occupandosi di me.
In quel primo pezzo sul giornale sardo - dopo aver dato en passant la sua solita passatina di fango sulla Sardegna in processione per Sant’Efisio («... con uomini così, con donne così, vestiti come alla sfilata di Sant’Efisio nei panni migliori da Pro loco») - si dedica per qualche riga a sistemare Salvatore Niffoi, premio Campiello 2006: «(Noi sardi. Ndr) non ci sappiamo ancora raccontare, al massimo ci facciamo vedere, ci mostriamo al continentale, gli diamo quel che vuole lui, di solito in salsa esotica barbarica ma fiera, pena non essere pubblicati, finanziati, prodotti, distribuiti, premiati ai festival o al Campiello, dove perfino Salvatore Niffoi è andato vestito da barbaricino stile Modolo a velluto a coste color muschio, con sulla pancia una catena d’orologio di tre etti e probabilmente senza orologio in nessuno dei venti taschini del corpetto del nonno».
Ora, però, analizzando con cura la tempistica di questi sfoghi di Angioni (la consegna del Campiello a Niffoi è del 10 settembre 2006; l’articolo che lo sbeffeggia è di quattro giorni dopo), è ipotizzabile una diagnosi molto meno sofisticata di quella che un qualsiasi freudiano ci potrebbe fornire.
La “colpa” di Niffoi era stata il Campiello: non certo il velluto né il panciotto!
Siamo infatti - molto, molto probabilmente - in presenza di veri e propri attacchi di bile causati da invidia simplex: scientificamente parlando è possibile notare che - a regolare distanza di tempo dalle sue crisi di gelosia, mal’animo e mal’occhio - Giulio Angioni invece di calcoli o renelle, espelle (con dolore e livore) articoletti assai acidi, spesso corrosivi, che però, spruzzati qua e là sui giornali locali, gli permettono da un lato di liberarsi del veleno che ha appena accumulato in corpo e, anche, però di ricordare al suo mondo che - con o senza il Campiello - anche lui esiste.
Tanti altri ne dovrà espellere, il povero inventore di Macondo-Fraus...
So io il fastidio - la stilettata che sento dentro - quando mi si accomuna ad Atlantide. Isola di Mille Puttanate, invece che alla “mia” Isola di Atlante degli Antichi: solida e rocciosa e realistica quanto la Roccia di Prometeo, il Caucaso...
Figurarsi lui...
Figurarsi che lui, ormai, ogni volta che deve digitare la “F”, la “R”, la “A”, la “U” per poter arrivare alla sospirata “S” finale della sua Fraus/Macondo, deve passare per “frau”. Pare che lì, ogni volta, abbia crisi biliari di questo tipo.
E proprio per colpa mia, poi...
Ora che lo so, ne ho quasi pena.
Chiaro, quindi, che - di tanto in tanto - debba espellere qualche riga per me: è la sua natura...
Come spiegarselo sennò quel che, di nuovo, a pagina 28 della rivista di Fofi scrive, contro la mia ricerca: «Abbiamo risposte da almeno duemila e cinquecento anni, in queste terre mediterranee (2500 anni? 2500 anni! Ndr). Eppure, se Soru vince le elezioni ed esce un nuovo quotidiano, mentre le arti sono un po’ più produttive tanto da scendere in piazza e fare anche spettacolo, mentre assistiamo a pianificazioni linguistiche plurime e azzardose e a piazzate pseudoscientifiche come la sardizzazione mediatica del mito di Atlantide, il bisogno di senso e di propettiva si rifà sentire concitato: anche con l’accusa di inutilità agli scombuiati raccoglitori di cocci nuragici o ai chiosatori di testi sardi medievali. E fa l’accademia, si domanda accigliati, l’accademia che tace sullo tsunami preistorico di cui favoleggia un giornalista troppo sicuro che la verità sia sempre e solo il credito che le parole si guadagnano, mentre premia e celebra l’operosità letteraria di un Salvatore Mannuzzu?».
Capito poco?
Anch’io...
Con Angioni, di solito, spesso è così.
Resta il fatto che di uno “Schiaffo di Poseidone” che devasta l’Isola Mito d’Occidente testimoniano Omero, Platone, Ramses III: non io.
Io verbalizzo.
E che queste cose le potranno decidere solo i geologi con le loro analisi: non io (giornalista), né lui (antropologo, scrittore). E che, comunque, tra me e lui forse il meno titolato per sputar sentenze sia proprio lui: si favoleggia addirittura che - prima della tragedia nell’Oceano indiano, che ha ricordato al mondo intero le pazzie omicide del mare - Angioni per mesi sia rimasto convinto che io stessi parlando di tal tziu Nami, un personaggio della Deledda che, però, non riusciva a mettere a fuoco. Io non ci credo, ma...
Per pietà - non tanto verso di lui ma la sua povera cistifellea che parla e scrive al suo posto, martirizzata da questo suo carattere - non osavo quasi farglieli leggere questi estratti dal convegno Unesco che (pur senza Spissu; nonostante gli appelli) comunque si tenne e che andò bene.
Poi, però, per la completezza dell’informazione...
E visto pure che un’amica cara, di Oliena, ha pensato bene di regalarmi un intero kit “scacciapensieri” - con corallo, cocco e occhio di Santa Lucia - ché dice che in casi così funzionano davvero e che ne ho bisogno...
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Le nuove notizie arrivarono con due Ansa targate Parigi:

Documento: 20050409 01805
ZCZC0161/SXB
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MOSTRE: PARIGI SCOPRE ATLANTIDE, E’ LA SARDEGNA / ANSA ALLA MAISON DELL’UNESCO DALL’11 SI DISCUTE L’IPOTESI DI FRAU
(ANSA) - ROMA, 9 APR - ‘Atlantika’: Sardaigne, Ile Mythe’ e’ il titolo della mostra che dall’11 al 26 aprile portera’ a Parigi una delle piu’ suggestive ipotesi archeologiche sulla quale da qualche anno si confrontano e scontrano studiosi e cacciatori di miti. L’ipotesi, formulata dal giornalista archeologo Sergio Frau, sposta le famose Colonne d’Ercole da Gibilterra al canale di Sicilia e indica la Sardegna come la famosa Atlantide di cui tanti testi antichi parlano.
L’esposizione parigina sara’ ospitata alla Maison de L’Unesco a place de Fontenoy dove il 12 aprile e’ previsto anche un convegno: ‘’La connaissance du monde ancien: aù étaient les Colonnes d’Hercule?’’. Fra i relatori, grandi nomi: l’accademico di Francia Azedine Beschaouch, gli archeologi Louis Godart e Andrea Carandini, il vice direttore dell’Unesco per la cultura Mounir Bouchenaki. Ci sono tutti gli ingredienti per prevedere che da Parigi possa avviarsi una revisione storica sul Mediterraneo della prima eta’ del Bronzo, una svolta appassionante che potrebbe imporre nuove interpretazioni dei testi antichi.
Siamo attorno alla fine del terzo millennio avanti Cristo, nella prima eta’ del bronzo. La Sardegna e’ abitata da un popolo di temuti guerrieri e abili navigatori costruttori dei misteriosi nuraghi, le torri-grattacielo che facevano fantasticare l’intero Mediterraneo. Fin qui tutti d’accordo ma poi, qualche anno fa, arriva il libro di Sergio Frau, ‘Le Colonne d’Ercole - un’inchiesta (come, quando e perche’ la Frontiera di Herakles/Milqart, dio dell’Occidente slitto’ per sempre a Gibilterra)’, edito da Nur Neon, ora in ristampa, e vecchi miti sopiti, scritti antichi considerati errati cominciano ad essere guardati con nuovi occhi.
Giornalista culturale di Repubblica, 56 anni, Frau ebbe l’illuminazione quando gli capito’ fra le mani una cartina geografica, pubblicata da parte di Vittorio Castellani (ordinario di fisica stellare a Pisa), che mostrava come doveva essere il Mediterraneo 2.550 anni fa. Privato di quasi duecento metri d’acqua il Canale di Sicilia si presentava come una sorta di doppio stretto: il primo costituito da Malta e dalla Tunisia, l’ altro punto situato un po’ piu’ su, con una Sicilia irriconoscibile, che presenta Marsala, Mazara, Capo Lilibeo e Sciacca situate nell’entroterra, lontane dal mare. Il canale di Sicilia visto cosi’, apparve subito a Frau come l’alternativa a Gibilterra e alle sue Colonne d’Ercole, tanto lontane dalla storia e dalla geografia dei greci piu’ antichi.
A trasferire il finis terrae, dalla strozzatura fra Sicilia-Malta e Libia-Tunisia, allo stretto di Gibilterra fu il grande geografo Eratostene. Ma per compiacere Eratostene si e’ dovuto accusare Omero, Esiodo, Erodoto, Timeo, Avieno e Dicearco di Messina, di aver commesso errori madornali riguardo alle indicazioni geografiche disseminate nelle loro pagine. Frau, inseguendo il sogno di rendere giustizia a un mito antichissimo, illuminato dalla cartina del professore pisano, ha impiegato tutto se stesso per contestare Eratostene (i suoi detrattori lo chiamano “il bibliotecario” perche’ fu direttore della biblioteca di Alessandria) e riabilitare poeti, storici e filosofi.
Ora la mostra di Parigi mettera’ a fuoco le rivoluzionarie tesi di Frau e si metterà alla ricerca della nuova Atlantide. Secondo questa revisione, sarebbe la Sardegna, la mitica isola descritta da Platone nel Timeo collocandola al di là delle Colonne d’Ercole e dalla quale si arrivava ‘’ad altre isole e al continente che tutto circonda’’.
Come il mito d’Atlantide vuole, anche la Sardegna - sottolineano gli studi di Frau - venne sommersa dalle acque, lo dimostrano numerosi riscontri archeologici e geologici secondo i quali l’isola venne repentinamente abbandonata attorno al 1178-1175 avanti Cristo. I nuraghi della costa sarda meridionale e occidentale, quelli che si trovano a quote basse, sono tutti distrutti scapitozzati, le grandi pietre gettate a terra, mentre quelli coevi della Sardegna del Nord sono ancora oggi in piedi. Da qui l’ipotesi che la Sardegna subi’ a meta’ dell’eta’ del Bronzo uno tsunami, un maremoto dalle proporzioni spaventose simili a quelle che ha colpito il Sud-Est asiatico il 26 dicembre 2004.
Ce n’e’ abbastanza per riprendere in mano testi gia’ scritti, certezze consolidate, confrontarsi con un intuizione imprevista, ma suggestiva che ha il fascino di risvegliare vecchi miti e di riportare, come scrive Sergio F. Donadoni egittologo e accademico dei Lincei, l’orizzonte dei Greci piu’ antichi (da Omero a Erodoto) ai mari che li circondano e che li uniscono alle loro colonie, lasciando a un severo controllo fenicio-punico il Mediterraneo occidentale. (ANSA).

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09-APR-05 12:01 NNNNDocumento: 20050412 06276
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COLONNE D’ERCOLE FRA SICILIA E TUNISIA? CONFRONTO ALL’UNESCO
MOSTRA FOTOGRAFICA SU STORIA SARDEGNA, FORSE E’ MITICA ATLANTIDE
(ANSA) - PARIGI, 12 APR - Dove erano le Colonne d’Ercole? La Sardegna e’ la mitica Atlantide? Questi interrogativi posti da Sergio Frau con il libro ‘Le Colonne d’Ercole. Un’inchiesta’, uscito nel 2002 e gia’ forte di 30 mila copie vendute, sono diventati oggi oggetto di un vertice alla sede dell’Unesco, a Parigi, in presenza di archeologi di fama internazionale. Al dibattito, che non cessa di incuriosire il mondo scientifico, e’ correlata la mostra fotografica ‘Atlantikà: Sardegna, Isola Mito’, che rivisita la storia antica dell’isola sulle orme dell’inchiesta di Frau.
‘’Mi sembra un miracolo l’interesse internazionale che la mia tesi sta suscitando’’ ha dichiarato, con l’entusiasmo e la passione che lo caratterizzano, il giornalista romano di origine sarda, prima di raccontare come e’ nata la sua idea. ‘’La mia e’ la storia di un dubbio - afferma - nato il giorno in cui mi sono imbattuto nelle cartine geografiche pubblicate nel ‘99 dall’Accademico Vittorio Castellani che mostrano com’era il Mediterraneo prima del disgelo. A quell’epoca la Sicilia e la Tunisia erano separate solo da uno stretto’’. Le leggendarie Colonne d’Ercole, ipotizza di conseguenza Frau, non sarebbero collocate nello stretto di Gibilterra, ma vicino al Canale di Sicilia. E la Sardegna, terra di nuraghi sommersi sotto cumuli di fango, non sarebbe nient’altro che la mitica isola di Atlante, che Platone colloca proprio al di la’ delle colonne e che sarebbe stata inghiottita dal mare. Frau va oltre: uno tsunami, molto piu’ forte di quello che ha colpito il sud-est asiatico lo scorso dicembre, sarebbe all’origine della scomparsa della civilta’ nuragica nel 1175 a.C.! L’ipotesi si e’ andata via via concretizzando attraverso un lavoro di ricerca lungo tre anni e ha finito con lo scatenare una vera rivoluzione nel mondo scientifico, aizzando polemiche e curiosita’ tra addetti e non addetti ai lavori. «Oggi queste ipotesi appaiono assolutamente verosimili» ha dichiarato Andrea Carandini, professore di archeologia classica alla Sapienza di Roma. «Frau prende posizione e pone dei problemi fondati, che ricollocano l’Italia al centro di un problema storico, oltre che geografico, e riconoscono alla Sardegna un ruolo preponderante nel mondo mediterraneo pre-moderno», ha sottolineato Azedine Beschaouch, archeologo e consigliere scientifico per l’Unesco.
Anche se assente al convegno, Mario Tozzi, geologo e primo ricercatore del CNR, ha fatto sapere che presto la Sardegna sarà oggetto di studi da parte dell’Istituto di Geologia del CNR; studi che, se avvaloreranno l’ipotesi dello tsunami, potrebbero far cambiare direzione alle future ricerche sull’attività tettonica della nostra penisola.
A tutti questi aspetti fa riferimento la mostra curata dallo stesso Frau e da Giovanni Manca, che, dopo esser stata ospitata dall’aeroporto di Cagliari l’estate scorsa, e’ ora sbarcata a Parigi. Gli scatti di sei fotografi sardi raccontano la storia di quest’isola al crocevia di diverse civilta’, e solleva numerose questioni: la Sardegna sarebbe forse una nuova Pompei? Il dibattito, che proietta la Sardegna in una dimensione internazionale, naturalmente, e’ ancora aperto.
RED*BL
12-APR-05 17:41 NNNN
***
Che giorno, quel giorno all’Unesco...
Testimonianze (trascritte) dalla giornata/convegno “La connaissance du Monde Ancien: où étaient les Colonnes d’Hercule?”, svoltasi alla sede dell’Unesco di Parigi il 12 aprile 2005, in occasione dell’inaugurazione della mostra “Atlantikà: Sardaigne, Ile Mythe”. Solo qualche frammento e qualche spunto dal dibattito tenuto lì: i lavori - sui molti stimoli contenuti negli interventi ascoltati in quel giorno fantastico - sono ancora in corso...
Mounir Bouchenaki (Vicedirettore dell’Unesco per la Cultura): «...Allora, ecco la questione: c’è stato un errore nel posizionamento delle Colonne d’Ercole allo Stretto di Gibilterra e di conseguenza dovremmo vederle piuttosto nel Canale di Sicilia, seguendo l’ipotesi avanzata nel libro e nel lavoro di Sergio Frau? E anche: i popoli nuragici della Sardegna preistorica sarebbero gli ispiratori di racconti mitici che hanno molto abbondantemente nutrito l’immaginario, come quello dell’isola prodigiosa scomparsa? Avranno potuto, in maniera più concreta e dinamica, esiliarsi in seguito a un cataclisma, forse uno tsunami, nel Mediterraneo del 1200 aC. Sono fuggiti all’est, verso il continente, o piuttosto a sud, verso l’Egitto di Ramses III?...».
«...Conto sicuramente su voi tutti per studiare e proporre idee su tale soggetto e apportare valutazioni su questa ipotesi. In ogni caso per l ‘UNESCO - come ho appena detto - è un argomento che interessa perché getta uno sguardo multidisciplinare su un tema che riguarda la storia, l’archeologia, l’intero Mediterraneo (...). L’opera di Sergio Frau ha più di 1700 punti interrogativi - li abbiamo contati - ed è chiaro che oggi non sarà possibile chiarirli tutti. Ma bisogna aprire il dibattito, cercare e trovare nuove testimonianze - come ho appena detto - e nuove tracce...».

Azedine Beschaouch (Accademico di Francia, Consulente Unesco di cui ha diretto la Sezione Patrimonio Mondiale): «...Passando al setaccio l’insieme dei testi si è reso conto che doveva essere presa sul serio quella tradizione che era stata presa sul serio per tutta l’antichità. È raro che la si sia messa in dubbio, certamente si è attirata l’attenzione su un aspetto che è l’aspetto poetico, l’aspetto quasi di fiaba che troviamo in particolare nel “Crizia” di Platone, ma per lui si tratta di non fare in modo di dimenticare tutta questa tradizione platonica che va molto lontano in tutta l’antichità...».
«...Tertulliano di Cartagine, ad esempio, in un grande testo che vorrebbe mostrare che non sono i Cristiani - come li si accusava - all’origine di tutte le sventure, e al momento opportuno dice: “Ma osservate, prima che esistessero i Cristiani, c’è stata un’isola che è scomparsa - e riporta sicuramente la tradizione del Timeo - e per quell’isola che è scomparsa i Cristiani non c’entrano per niente”. Tale tradizione verrà ripresa dopo da Arnobio, che è un altro africano di lingua latina, cristiano di Sika che oggi si chiama il Kef. E si va fino al V secolo dC nella tradizione, poiché il grande Filone d’Alessandria e, a seguire, Proclo ci riportano la stessa tradizione ed essa si è inserita pian piano nella tradizione cristiana per fare in modo che - come diceva per primo Tertulliano - non si accusino i Cristiani di essere all’origine della sventura del mondo...».
«...Allora vedete che questa lunga tradizione sulla scomparsa dell’Isola di Atlante - che non è solo una tradizione platonica di geografia antica e di sapere se è il mito che prevale sulla storia - è diventato un luogo comune di tutto il pensiero, compreso quello cristiano...».
«...Certi giornali che ho letto, in particolare di Sardegna e in una polemica che ha superato l’opera, si sono detti “ma che c’entra il tema di Atlantide?”. Io trovo che è impensabile - vorrei che tutta la sala lo sapesse, anche se non si è letto il libro - riprendere il tema “dov’erano le Colonne d’Ercole?” che ci occupa oggi, senza occuparsi del problema dell’Isola di Atlante poiché è correlativo e che l’uno ci conduce a trattare dell’altro...».
«... Il libro di Sergio Frau ci invita a riflettere - e credo che questo sia il suo apporto principale - e ci invita a porci nuovamente dei problemi e in ogni caso ricolloca l’Italia per la sua parte sarda, il Maghreb per la sua parte tunisina, li ricolloca - al di là della polemica - nel cuore di un problema di storia...».

Louis Godart (Archeologo, Docente universitario, Responsabile incaricato del Quirinale per Arte e Archeologia): «...Vorrei dirvi il mio entusiasmo alla lettura del libro di Sergio Frau: è un libro che ci invita a pensare, a riflettere e a criticare. Sono uno specialista del Mondo Egeo e amo sempre ricordare ai miei studenti una cosa che mi sembra fondamentale nella storia dell’archeologia mediterranea, cioè che dopo gli scavi di Schliemann a Troia e a Micene si è ormai assolutamente certi che non c’è una sola leggenda che non abbia le sue radici in una verità storica che noi dobbiamo sforzarci di scoprire. Di conseguenza - ed è il primo punto sul quale vorrei soffermarmi - mi sembra fondamentale che noi ricerchiamo le radici storiche del mito che racconta Platone a proposito di Atlantide. E prima di leggere Frau non dubitavo, beninteso assieme a molti altri, che ci fosse dietro a questo racconto di Platone una realtà storica che dovessimo sforzarci di mettere in luce...».
«... il mondo che va al di là del Canale di Sicilia è un mondo lontanissimo dalle cure degli stati costituiti. È un mondo in cui sporadicamente si avventurano marinai che agiscono al di fuori dei grandi circuiti del commercio palaziale, dunque è un mondo che appartiene, oserei dire, quasi alla leggenda...».
«... In un contesto come questo mi sembra storicamente probabile che i limiti posti dai regni costituiti del mondo minoico e miceneo siano stati effettivamente i limiti del Canale tra la Tunisia e la Sicilia. E di conseguenza devo dire che, confrontando l’esperienza archeologica del III e del II millennio a.C. con la tesi di Frau, sono stato sedotto da questa ipotesi avanzata con grande determinazione e grande entusiamo nel suo libro...».
«...Ciò detto, le cose sono tanto semplici? Forse no, e vi assicuro che non ho alcuna ricetta da proporvi: ho semplicemente delle domande da porre a voi e al nostro amico Frau. Frau molto giustamente insiste sulla fine dell’Età del bronzo, sulle iscrizioni egiziane di Medinet Habu, sulla comparazione avvincente tra i rilievi del tempio di Ramses III e alcune statuette di Sardegna. Trovo che effettivamente il casco dei guerrieri Shardana, che sono legati ai Popoli del mare e che hanno minacciato - come voi sapete - non solo l’Egitto ma egualmente i regni della Palestina (e probabilmente provocato direttamente o indirettamente la fine del mondo palaziale miceneo) devo dire che il paragone tra quei testi, quelle rappresentazioni e i bronzi di Sardegna è un paragone assolutamente sorprendente...».

Andrea Carandini (Docente di Archeologia Classica a La Sapienza di Roma): «...I miti sono un intreccio di rappresentazioni, rappresentazioni fantastiche da un lato - e questo non bisogna dimenticarlo - ma che sono anche radicate nei dati reali. Dunque c’è una specie di doppia logica nel mito, ma c’è un elemento, che anche i miti sono prodotti storici: sono dunque isterici nella fantasia e storici nei dati reali. Dunque i miti non sono eterni, sono nati in un certo momento e poi cominciano la loro stratigrafia e la loro evoluzione...».
«... Allora è chiaro che la geografia antica, prima dell’espansione di Alessandro e di Roma, ha conosciuto altri limiti, ha conosciuto espansioni verso l’Oriente e verso l’Occidente, e tutto ciò è molto ragionevole. La geografia ha un elemento fantastico, non bisogna dimenticarlo, e una parte reale. Ed è su quest’ultima che Sergio Frau ha condotto la sua inchiesta ...».
«...Ci sono molti che brontolano... Si può brontolare, si può criticare, ma quello che hanno fatto certi Sardi, cioè un appello contro il libro di Frau, mi sembra qualcosa che avrebbe fatto imbestialire Voltaire...».

Maria Giulia Amadasi Guzzo (Docente di Epigrafia semitica a “La Sapienza” di Roma): «... Le osservazioni precedenti mostrano, mi sembra, che il lavoro di Sergio Frau, oltre alle nuove ricostruzioni che propone, incita i ricercatori a rivedere, sotto punti di vista differenti, seguendo ciascuno la sua specializzazione, problemi che si credeva risolti o che erano stati messi da parte. Egli incita a riaprire i dossier e a intraprendere altre ricerche di differente natura. Da parte mia ho provato a interrogare di nuovo l’epigrafia con risultati che mi sembrano interessanti. Ma la vasta ricerca di Frau - un’inchiesta che uno specialista non avrebbe potuto portare a termine - deve essere il punto di partenza per far progredire le nostre conoscenze in più direzioni, soprattutto in rapporto a regioni del Mediterraneo che esigerebbero studi più approfonditi...».
***
I quotidiani sardi, stavolta, fanno festa. L’Unione Sarda - con un bel reportage di Maria Paola Masala - titola: All’Unesco, a parlar di Atlantide e Sardegna. Occhiello: Eventi. Parigi incorona l’autore de “le Colonne d’Ercole” e gli dedica un convegno. Sommario: Interesse degli studiosi per la ricerca di Sergio Frau e per la mostra “Atlantikà: Sardaigne, Ile Mythe”. La migliore rivista di archeologia di Francia - Archéologia - esce con l’articolo che segue:
UNA NUOVA LOCALIZZAZIONE
PER LE COLONNE D’ERCOLE*
di Daniela Fuganti
(con la collaborazione di Azedine Beschaouch)

Dove si trovavano veramente le famose Colonne d’Ercole, frontiere marittime del Mondo Greco? Tradizionalmente si considera che corrispondano all’attuale Stretto di Gibilterra, ma di recente tale certezza è stata rimessa in discussione dalla pubblicazione di un’inchiesta storico-archeologica. Nella primavera 2005, un convegno organizzato a Parigi dall’UNESCO ha fatto il punto su queste nuove ipotesi.
Lo Stretto di Gibilterra, che unisce il Mediterraneo all’Africa e separa la Spagna dal Marocco, trae il suo nome dalla roccia che lo domina all’estremità meridionale della penisola iberica: “la montagna di Tariq”, così chiamata con riferimento a Tariq Ibn Ziyad, il conquistatore arabo-berbero dell’Andalusia, negli anni 711-712. In lingua araba la denominazione è Jabal Tariq, che diventa Gibraltar in spagnolo. Nell’antichità greco-romana, lo Stretto veniva chiamato con il nome di Colonne d’Ercole. Questa certezza geografica era dunque entrata nell’uso comune da lunghissimo tempo, e nessuno aveva pensato a porne in dubbio la veridicità.
Ecco quello che recentemente ha osato fare un giornalista culturale italiano, Sergio Frau, collaboratore del quotidiano La Repubblica, appassionato di storia e di archeologia, non indifferente al gusto dei paradossi. In un libro di successo intitolato Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta, l’autore non esita a rimettere tutto in discussione e a enunciare nuovi interrogativi sull’evoluzione della geografia antica. Il sottotitolo stesso dell’opera è abbastanza eloquente: Come, quando e perché la frontiera di Ercole-Melqart, dio dell’Occidente, slittò per sempre a Gibilterra.
Una questione internazionale
Sotto l’egida dell’Unesco, e sotto gli auspici della Delegazione Permanente dell’Italia presso l’Unesco, una grande esposizione documentaria ideata da Sergio Frau e Giovanni Manca (carte, fonti letterarie classiche, presentazione di siti archeologici, ecc.) è stata ospitata durante la prima metà del mese di aprile 2005 nella sede dell’organizzazione internazionale, a Parigi. Parallelamente, un convegno affrontava il tema dell’ubicazione delle Colonne d’Ercole nell’antichità, riunendo un gran numero di storici e archeologi di fama.
Al di là delle polemiche, inevitabili in questa materia, e di tutto l’apparato critico necessario alla serietà della discussione, è ormai possibile di fare il punto, di comprendere meglio le implicazioni della geografia nella storia mediterranea e di valutare pienamente l’importanza del contributo fornito dall’iniziativa di Sergio Frau.
Un’unica fonte ellenistica
Occorre partire da un dato essenziale. Certo, come ha fatto rilevare il professor Azedine Beschaouch, le Colonne d’Ercole venivano collocate nel sito dell’attuale Gibilterra. Ma questa corrispondenza deve considerarsi valida per tutti i secoli dell’antichità ? Tale ipotesi resta concepibile, però non abbiamo alcuna prova per confermarla o per respingerla.
Le nostre conoscenze sull’ubicazione sulle Colonne d’Ercole riposano su una sola certezza: la loro localizzazione nell’attuale Stretto di Gibilterra da parte dello studioso greco Eratostene nel III° secolo avanti Cristo. Astronomo, geografo e matematico, gli dobbiamo la prima misura precisa della circonferenza della Terra, e le sue informazioni sono da considerarsi affidabili.
Ma come stavano le cose nei secoli, o addirittura nei millenni che hanno preceduto l’epoca di Eratostene? Dov’erano situate allora le “Colonne”?
La seducente ipotesi della Sicilia
Sergio Frau ha condotto un’inchiesta molto precisa, basata su prove, correlazioni, a volte semplici indizi. Ha proceduto anzitutto a una rilettura delle fonti classiche, poi a un esame della protostoria euro-mediterranea, convocando per la sua “rassegna” (che è in realtà una “revisione”) non soltanto i Greci e i Fenici, ma anche i sempre misteriosi “Popoli del Mare”. Si arriva così ad un autentico riposizionamento delle nostre conoscenze sulla geografia del mondo antico.
Il professor Luciano Canfora, ellenista e storico, riassume l’ipotesi di Frau: «In antico, il pericoloso confine segnato dalle Colonne d’Ercole veniva identificato con il Canale di Sicilia, cioè nel luogo in cui la Sicilia e la Tunisia quasi si toccano. Soltanto in epoca ellenistica quel simbolico confine fu spostato e localizzato a Gibilterra. E’ la tesi argomentata da Sergio Frau in un libro molto originale...».
L’apporto di questo libro-inchiesta è ugualmente sottolineato dal professor Jean Bingen, ellenista, membro dell’Accademia Reale del Belgio: «La tesi dell’autore si fonda su un fatto, innegabile: la divisione del Mediterraneo pre-romano in una zona orientale, dove predominano quasi esclusivamente le città e le colonie greche arcaiche, poi classiche, e una zona occidentale, che è uno spazio di espansione fenicia. Questa dicotomia ha ispirato all’autore la convinzione che le Colonne d’Ercole si sono situate all’inizio da una parte e dall’altra del canale di Sicilia, “orizzonte dei Greci da Omero ad Erodoto”, e che solo più tardi, in epoca ellenistica, ogni sorta di fattori ha indotto a spostare le Colonne sulle due sponde dello Stretto di Gibilterra. L’ipotesi di una localizzazione primitiva delle Colonne nel canale di Sicilia è seducente e chiarisce la portata di numerose fonti antiche».
L’Atlantide in Sardegna?
Ma l’ipotesi di Frau - questa concezione geo-storica del Mediterraneo antico - ha anche un corollario di grande importanza, che coinvolge il famoso mito platonico dell’Atlantide. Segnaliamo che per la storia di tale mito (la cui origine si trova in due dialoghi di Platone, il Timeo ed il Crizia) si dispone ormai di un libro di grande livello, che nulla lascia nell’ombra: L’Atlantide di Pierre Vidal-Naquet (Les Belles Lettres, Parigi, 2005).
La nuova ipotesi enunciata da Frau consiste nell’identificazione della Sardegna con l’Isola di Atlante. Ne consegue una messa in luce del passato fenicio della grande isola e del suo ruolo nel Mediterraneo occidentale in epoca pre-ellenistica, finora sconosciuto o sottovalutato.
A tale proposito, Vittorio Castellani, membro dell’Accademia dei Lincei, fisico e archeologo, ha fatto notare: «Frau fornisce corposi indizi che suggeriscono come in un tempo antichissimo, quello dove va collocato il racconto di Platone, il mare conosciuto e solcato dagli Egiziani e dai Greci avesse le sue Colonne d’Ercole non nella lontanissima Spagna ma in un restringimento occidentale ben più prossimo, il Canale di Sicilia, racchiuso fra l’ultima propaggine della Sicilia stessa e l’estrema punta della Tunisia. Un’ipotesi che chiarisce di colpo il discorso di Platone sull’Atlantide nel Timeo: “Perchè davanti a quella foce che viene chiamata, come dite, le Colonne d’Eracle, c’era un’isola... e a coloro che procedevano da essa si offriva un passaggio alle altre isole, e dalle altre isole a tutto il continente che stava dalla parte opposta intorno a quello che è veramente il mare”».
Un passaggio che permette di eliminare tutte le precedenti ubicazioni dov’era stata collocata l’Atlantide. Al di là del Canale di Sicilia (ipotesi di Frau) si trova l’Atlantide-Sardegna, e, ancora al di là, altre isole, prima di poter raggiungere il continente che, dall’Italia alla Spagna ed alle coste africane, delimita un mare: il mare tirreno-mediterraneo. Se la tesi è esatta, l’Atlantide esce dal mito per entrare nella storia della Sardegna, ancora così poco studiata.
Decifrare i racconti più antichi
Realizzato con il sostegno del professor Mounir Bouchenaki, archeologo, ex direttore generale delle Antichità in Algeria e vice direttore generale dell’Unesco per la Cultura, e presieduto dal professor Azedine Beschaouch, il convegno dell’Unesco di aprile 2005 ha permesso di superare le polemiche e, in un certo senso, di rivisitare la storia e la geografia del Mediterraneo in epoca precedente alle conquiste di Alessandro il Grande.
Le ipotesi di Frau sono servite come base di partenza per una reale messa a punto delle nostre conoscenze, in particolare alla luce dei progressi registrati dalla ricerca archeologica.
Il brillante intervento del professor Louis Godart, accademico (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere, e Accademia dei Lincei) e specialista del mondo egeo antico, ha combinato le ricerche di filologia, archeologia e mitologia, interrogandosi poi sulle radici storiche degli elementi fondamentali di tali ricerche, e arrivando così a conclusioni di grande portata.
Godart ha ricordato che, pur essendo rappresentazioni fantastiche, i miti mediterranei sono radicati in dati reali. Il mondo minoico (periodo della Creta pre-ellenica che va dal III millennio fino al 1100 a.C.), e il mondo miceneo (periodo di brillante civiltà che si sviluppa fra Micene e Tirinto a partire dal XVI secolo a.C., e che crolla alla fine del II millennio) avevano una frontiera immaginaria dalle parti del Canale di Sicilia.
La loro navigazione si concentrava soprattutto nel Mediterraneo orientale, con agenzie commerciali in Egitto, in Siria-Palestina e nelle isole del mar Egeo ; per queste due civiltà, minoica e micenea, il Mediterraneo occidentale appartiene quasi alla leggenda. E’ quindi poco probabile che in quei tempi le Colonne d’Ercole si situassero nel luogo che noi oggi chiamiamo stretto di Gibilterra.
Quando Itaca era l’ultima frontiera verso Occidente
Concordando con l’esposizione del professor Godart, il professor Andrea Carandini (Università La Sapienza di Roma), storico di Roma e dell’Impero romano, archeologo di fama, ha ricordato a sua volta come i miti e le leggende abbiano uno spessore storico da scoprire e analizzare.
Carandini ha proposto una lettura dell’Odissea di Omero compiuta alla luce delle più recenti scoperte archeologiche, nonché una chiara affermazione del principio secondo cui bisogna sempre saper distinguere “l’archeologia delle idee nuove” da quella dei luoghi comuni (idées reçues), ma anche ovviamente da quella così carinamente definita come “l’archeologia delle idee folli”, che ha come obiettivo l’arricchimento personale e fa commercio di sensazioni e di idee ciarlatanesche. Sulla base di tali premesse, il professor Carandini ha proposto una doppia conclusione.
E’ tra la fine del IX e l’inizio dell’VIII secolo a.C. che i Greci imparano a navigare verso l’Occidente. A questo proposito Carandini ricorda che nell’Odissea già l’isola di Itaca costituiva, per la geografia omerica, un limite estremo: al di là, si apriva il baratro dell’ignoto. In effetti, tre vie di comunicazione costituivano per i Greci, in quei tempi, altrettante ben precise barriere geo-politiche: il mare Adriatico (autentico vicolo cieco); il mare Tirreno (chiuso da Roma, Veio e dalla potenza etrusca); il Canale di Sicilia (bloccato dalla potenza cartaginese).
In quest’epoca, l’Italia era il limite del Mediterraneo conosciuto dai Greci, e le Colonne d’Ercole non potevano quindi in nessun caso situarsi nel nostro attuale Stretto di Gibilterra. Ricordiamo che il grande storico di Cartagine e del mondo punico, Sabatino Moscati, archeologo e accademico in Italia e in Francia, era giunto da parte sua quasi alla stessa conclusione: «Cartagine - scriveva Moscati nel 1978 - volle far cadere una Cortina di Ferro in mezzo al Mediterraneo, per tagliare ai Greci la via verso l’Occidente».
Sembra veramente che la battaglia delle Colonne d’Ercole stia per essere vinta dal temerario Sergio Frau. Ma che ne è dell’Isola di Atlante-Sardegna ? Se ne è parlato talmente poco all’Unesco! Nell’attesa di un altro convegno (in Sardegna?), non bisogna mai esser sicuri di nulla.
* Questo testo è la traduzione di un articolo comparso nel N° 426 (Ottobre 2005) della rivista francese Archéologia. E’ stato redatto da Daniela Fuganti con la collaborazione del professor Azedine Beschaouch, archeologo e filologo, membro dell’Institut de France e consigliere scientifico presso l’Unesco, che ha presieduto la giornata dell’Unesco dedicata alle Colonne d’Ercole.
***
E ”l’auspicato dialogo” con la Presidentessa dell’IIPP?
Scemo io a crederci per mesi.
A non accorgermi che quelle son cose che si dicon così: formule di cortesia e nulla più.
A Lei evidentemente basta e avanza la Sardegna che sa.
Che gli viene raccontato da Chierici & Santoni...
Tutto il resto - quel che le interessa davvero - è altrove...
Per questo l’archeologia rischia ormai di farsi autopsia...
Mille scavi, mille schede, mille dettagli e mai una domanda: un “perché?”, un “quindi...”.
A queste due lettere che seguono non ho avuto risposta...
E sì che erano, quasi, ramoscelli d’ulivo...
Tronchi di ulivo.
Il dialogo, il confronto, la differenza di opinioni, il dissenso ben vengano se informati dal rispetto reciproco, dall’onestà onesta, dalla voglia - vera - di capirne, tutti insieme, un po’ di più.
Aspetterò quanto serve...
***
Roma 16 maggio 2005

Egregia Dottoressa Sestieri
Non vorrei certo metterle fretta ma, ormai, avrei proprio bisogno di sapere se, prima o poi - in nome di quel dialogo da Lei auspicato - ha intenzione di rispondere alla mia lettera del 10 marzo 2005...
(Gliela riallego in coda insieme a un recente intervento del direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici della Sardegna, Antonio Giovannucci, a proposito di quello scempio perpetrato all’Anfiteatro Romano di Cagliari che - come ormai sa - ebbi modo di denunciare nel 2000, dando conto delle 7000 firme che imploravano Santoni Vincenzino di non compiere un atto contrario al suo ruolo, attirandomi rancori e rappresaglie di cui l’Appello preparato nell’isola e ospitato dall’IIPP, è solo l’utlimissima testimonianza).
All’Unesco di Parigi, invece, tutto bene: un vero peccato che Lei non abbia potuto partecipare con il suo controcanto critico a una giornata di riflessioni e dibattito assai stimolante e - per quel che mi riguarda - gratificante. Degli interventi di tanti suoi illustri colleghi (Mounir Bouchenaki, Andrea Carandini, Louis Godart, Azedine Beschaouch, Maria Giulia Amadasi, Kostas Soueref, Claudio Giardino, Maria Antonietta Mongiu) saranno pubblicati degli atti che provvederò a farLe avere. Se per caso fosse interessata ad anticiparne la conoscenza, può trovare le prime affrettate trascrizioni sul sito www.colonnedercole.it.
Con tutta serenità, Le confesso che tornare a Roma, riaprire il pc e - cliccando il vostro sito dell’IIPP - ritrovarmi ancora appeso lì dentro, alla berlina, dopo cinque mesi, mi è sembrato davvero grottesco. Ringraziando il cielo l’intero Mediterraneo a cui vi siete appellati vi ha concesso a tutt’oggi solo 300 firme. Una situazione comunque che - per quel che mi riguarda - va risolta con rigore, pulizia e trasparenza da parte di entrambi in modo che nessuna ombra resti né su di voi, né su una ricerca onesta, e soprattutto sul mio diritto di portarla avanti senza scomuniche né anatemi. La ringrazio.
Sergio Frau
Allegato.

All’attenzione della Dottoressa Anna Maria Sestieri, 10 marzo 2005
Gentile Dottoressa Sestieri
Ci ho pensato su, ho rovistato nella mia coscienza e ho anche parlato con i miei legali, attendendone le decisioni. Siamo arrivati insieme a questa conclusione: purtroppo la difesa della mia professionalità mi impone di non archiviare (a cuor leggero, come del resto farei volentieri) questa squallida vicenda che ha coinvolto me quanto Lei.
Fango addosso - e per di più pilotato originariamente da interessi “altri” rispetto al rigore scientifico, e per di più ingiusto, e per di più mandato per conoscenza al mio Direttore - non ho proprio intenzione di tenermelo. Il fango, semmai, è da tutt’altra parte come ben dimostrano, fin dall’inizio, i documenti che Lei ha ricevuto da me privatamente (e ora in rete sul sito www.colonnedercole.it). Per questi motivi auspico che insieme - Lei ed io - si arrivi a una soluzione concordata. Le faccio tre proposte. E gliele faccio senza rancori di sorta, in nome di quel dialogo che Lei auspica e che stiamo tentando di avviare con estenuanti approssimazioni successive.
Prima proposta: che Lei partecipi tra gli invitati ufficiali - nella sua veste di Presidente dell’IIPP, e con la sua sacrosanta posizione critica (che, ovviamente, io rispetto) - alla Giornata Convegno sulle mie ricerche, organizzata dall’Unesco il 12 aprile prossimo a Parigi e presieduta dall’Accademico di Francia Azedine Beschaouch. Titolo: “Entre les Colonnes d’Hercule et l’Île d’Atlante: l’Antiquité méditerranéenne revisitée”. (Nell’occasione mi fa piacere invitarla all’inaugurazione della mostra fotografico-documentaria “Atlantikà: Sardegna Isola Mito” che si terrà l’11 aprile alle 18, nella Halle Segur della sede dell’Unesco di Place Fontenoy).
Seconda proposta (non necessariamente alternativa alla prima, ma anzi, volendo, complementare): che insieme, quando vuole, si organizzi un raid di conoscenza e verifica in Sardegna, con gente di sua fiducia e geologi Cnr a cui ho sottoposto il “Caso Sinis”, in modo che Lei possa emettere un suo giudizio sulle problematiche che il mio libro ha suscitato.
Terza proposta: che io - alla prima occasione che vedrà riuniti all’IIPP almeno parte dei suoi soci firmatari - possa tenere una conferenza illustrativa di quel che è saltato fuori dalle mie ricerche, dal libro, e dai tanti confronti specialistici che sono seguiti per due anni alla pubblicazione di “Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta”. Sarà in quel contesto, davvero scientifico, che proveremo a verificare se tutti quanti quei 1792 punti interrogativi che ci sono nel mio libro sono da bocciare in massa.
A Lei la scelta. A me sembrano tre modi corretti e, tutto sommato, abbastanza dignitosi per entrambi, per superare una triste pagina della mia e della vostra storia. Che ne dice?
Cordiali saluti
Sergio Frau
Ps: Le spedisco per e-mail questa mia - che Le arriverà anche in raccomandata - per accelerare i tempi. La sua pubblicazione (sia sul sito IIPP che sul mio) accompagnata dalla risposta che Lei mi darà, potrebbe chiudere la raccolta di firme e l’intera diatriba.
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Ancora sto aspettandola una risposta dall’Istituto...
Del resto “noblesse oblige”... O non più?
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Quasi un diario / 18 luglio 2005, la cittadinanza onoraria
di San Sperate: ovvero “l’Anti-pregone”...

Dopo l’Appello al Mediterraneo ma prima ancora dell’Unesco e delle sue conferme, Pinucccio Sciola, Paolo Lusci e Gesuino Mattana annunciarono forte e chiaro il proposito di conferirmi la cittadinanza onoraria di San Sperate, posto magico d’arte e di murales, ma anche di nuraghes ancora sotto il fango...
Come Milis che non aveva accettato intimidazioni al momento di presentare la mostra che ora va ai Lincei, come tanti tantissimi luoghi che mi hanno voluto lì da loro - nonostante gli anatemi - a spiegare le ragioni dei miei dubbi, lì a San Sperate volevano soprattutto dimostrare che libertà di pensiero, di ragionamento, di espressione sono bene accette nell’Isola delle kentos konkas /cento teste e dei mille modi di pensare. Ne vado davvero fiero: anche perché le loro parole (trascritte) furono queste.

Nino Nonnis, scrittore: «Mi voglio far precedere dalle parole di una persona illustre che è morta da poco... Si chiama Karl Popper. La scienza - si sa - è sempre andata avanti per convalide. Poi c’è stato Popper che ha detto no: la fruttuosità della scienza è quando viene invalidata, e quindi bisogna reimpostare tutto e lo stantio dell’ortodossia (alla quale si rifà sempre) viene sommosso e viene ribaltato anzi. E questo è uno di quei casi in cui questo succede (...) Per questo ho accolto con grande interesse, ma non soltanto per lo specifico, ma come fatto che avviene, cioè che una persona come Sergio, che non ha passato mica la sua vita a studiare Atlantide o che, si sia interessata di questo e abbia detto la sua. E - come fanno quelli che toccano un barattolo nei supermarket e fanno cadere tutta la fila dei barattoli - son caduti tutti i barattoli a terra... Ed è stato allora che cento persone, qui, si son messe d’accordo per rimetterli in sesto... Hanno detto: va be’, facciamo tutto noi. Hanno messo le firme e stanno ancora cercando di rimettere a posto i barattoli, perché quel supermarket è il loro, e quella esposizione l’hanno creata loro. Invece Sergio Frau purtroppo per loro è un vecchio allegrone...».

Gesuino Mattana, sindaco di San Sperate: «...Appena ho avuto notizia delle sue ricerche sulle Colonne d’Ercole, sull’Isola di Atlante, devo dire che quello che mi ha colpito di più è stata proprio l’immagine di Atlante Farnese che si porta un globo in spalla, opera ellenistica. E son rimasto così: accidenti non ha una pizza, non ha una torta in spalla, non ha un cd-rom, ha un globo! E il povero Galileo - poverino! - 1500 anni dopo ha dovuto patire le sue pene perché ancora diciamo la scienza ufficiale sosteneva che la terra era una sorta di pizza, una sorta di torta.
Quindi non sempre la scienza cammina con passi rettilinei, e spesso ci sono queste contraddizioni, e spesso ci sono vere e proprie vittime. Devo dire che mi ha fatto molto piacere perché in termini culturali - e questo ve lo dico anche come medico - l’autostima di noi Sardi dopo queste affermazioni di Sergio Frau è salita alle stelle (...).
E se noi pensiamo che un punto più alto l’aveva raggiunto su babbu mannu, Giovanni Lilliu, con la scoperta e i suoi studi sui nuraghe (però con, sottintesa, la frase vinti ma non convinti, però - quindi - sempre vinti, perdenti...) diciamo che come passo è enorme veramente per un sardo. Per per questo m’ha fatto piacere la proposta che ha fatto Pinuccio, (...) di cui vi do lettura, perché tra l’altro riassume i sentimenti nostri e dice quale sia il motivo per cui lui propone questa cittadinanza onoraria:
“Premesso che tutto ciò che indichiamo in senso lato con la parola cultura costituisce l’aspetto più importante per qualsiasi società civile, è doveroso sottolineare che chi si prodiga con il proprio lavoro, i propri studi, le proprie ricerche in questo campo talvolta dai confini indefiniti, sostenuto dalla passione e dall’entusiasmo per la felice intuizione abbia il dovuto riconoscimento, in modo particolare da parte di quegli amministratori attenti alle problematiche culturali della propria comunità. In questo senso da sempre si è contraddistinta l’amministrazione di San Sperate che già in passato ha conferito l’onorificenza di cittadino onorario ad Ornella Volta.
Sergio Frau, firma prestigiosa del quotidiano “la Repubblica” di cui è stato uno dei fondatori, da quasi trent’anni è attento osservatore dei fatti culturali del nostro tempo, un impegno profondo a favore dell’informazione e della conoscenza della storia dell’uomo. Ha avuto il coraggio di cercare nuove risposte a domande che già le avevano, certe e codificate dalla storiografia. Ha seguito un’idea con decisione. Si è confrontato con centinaia di documenti, di libri. Ha sottoposto il risultato delle sue ricerche al vaglio di tanti studiosi. È riuscito a riaprire “il caso” con successo. Ha instillato il dubbio scientifico in questioni ritenute chiuse. Ha moltiplicato le domande che meritano risposta. Con la semplicità che contraddistingue le grandi cose ci ha detto che le Colonne d’Ercole vanno spostate dalla Stretto di Gibilterra allo Stretto di mare tra Sicilia e Tunisia: una rivoluzione geopolitica per la storia antica del Mediterraneo! E la Sardegna che non esisteva - dimenticata, quasi rimossa - rioccupa il suo spazio vitale nel bel mezzo della storia. Come negare la soddisfazione e lo scatto di orgoglio che ci ha accomunato tutti nel leggere il libro di Sergio. Io non so se la scienza dimostrerà vera in toto o in parte l’ipotesi di Sergio Frau, ma oggi credo che gli dobbiamo la nostra gratitudine e dovremmo considerarlo un fratello e in forza di questi sentimenti propongo a questo spettabile consiglio comunale di conferirgli la cittadinanza onoraria per il suo lavoro, per il suo impegno, per aver riportato con merito la Sardegna al centro del dibattito scientifico internazionale. Firmato: Pinuccio Sciola”».

Pinuccio Sciola, scultore: «Letta la lettera, ora necessita di un post scriptum... Ho scritto - e Gesuino l’ha appena letto - considerando Sergio Frau un fratello... Dovrei correggere: perché devo dire che è stato un padre. Nei miei interventi io non faccio altro che attingere alle mie esperienze e in questo caso devo un grazie veramente ancora più grande a Sergio, perché ricordo i primi anni del mio peregrinare in tutta l’Europa prima, per studi, per confronti, per sapere, e, come sempre consiglio anche a tutti i giovani, mi sono come sempre presentato quale ero senza presunzioni e senza inibizioni con la mia cultura, io conoscevo la mia cultura; ma quando mi presentavo in giro - in Francia, a Stoccarda, a Berlino, ecc. - quando dicevo che ero Sardo non mi riconoscevano. Se c’era un mio amico greco, veniva identificato con la cultura classica, greca; se c’era un altro mio amico messicano, veniva automaticamente identificato con la cultura maya. Io non avevo alle spalle niente: perché gli altri non sapevano niente. Ho dovuto lottare per farmi conoscere quale ero e portatore anche di una grande cultura, la grande cultura della pietra che fuori nessuno conosceva, e pochi anche adesso.
Credo che il lavoro che sta facendo Sergio sia di una importanza immensa perché ci pone veramente non più in alto, ma a confronto con le altre culture: una cultura al centro del Mediterraneo quale la Sardegna ha - ben documentato - con tutto quello che c’è. Perché poi basta girare, basta vedere, toccarle le pietre e sapere da dove proveniamo e che tipo di cultura abbiamo. Oggi - dovendo rifare tutte le tappe dei miei primi anni di studi, di viaggi - credo che molto più che allora potrei veramente camminare a testa alta, con l’orgoglio di essere veramente figlio di quella grande cultura, che - ripeto - io già sapevo.
Spesso ho parlato anche con mia figlia: probabilmente io stesso sono nato da una pietra, da una pietra della Sardegna, e quindi venivo dall’interno di questa cultura...
E questa cosa altri non la conoscevano proprio. Tutt’al più allora la Sardegna veniva identificata con il banditismo o - successivamente - con la Costa Smeralda: ma non “c’era” una cultura.
Io ancora oggi vedo in tutti i libri di storia dell’arte del mondo l’unico esempio di copertura a tholos che c’è in Grecia, che è la tomba di Agamennone, è pubblicata su tutti i libri di storia dell’arte della Sardegna... In Sardegna ce ne sono 10 mila e non esiste in nessun libro...
Be’, io credo che questa mia testimonianza sia significativa per capire e per ringraziare Sergio di quanto sta facendo e quanto dobbiamo essere vicini a lui in questa lotta veramente dove ci sono personaggi con nomi e cognomi che hanno impedito che la cultura della Sardegna venisse conosciuta fuori, perché sono sempre rimasti nel loro orticello. E io sapendo della grande cultura, tanti contatti con altrettanti direttori dei musei tedeschi prima, olandesi, che venivano qui, e quando io li portavo in giro per toccare questa nostra cultura tanti si sono entusiasmati e mi hanno chiesto, proposto di fare delle mostre sulla cultura della Sardegna nei loro musei...
Venuti qui, presi appuntamenti...
Non c’è mai stato niente da fare...
E la Sardegna veniva continuamente ancora ignorata.
Adesso abbiamo questa grande fortuna che anche l’Unesco - con il suo grande patrimonio culturale - sta abbracciando questa ipotesi degli studi di Sergio Frau, e questo credo sia un grande riconoscimento per la nostra cultura.
Gli lascerei subito la parola, però dicevo che dobbiamo essere vicino a Sergio: quando lui ha cominciato a far cadere i barattoli - come dice Nino - che cosa si è mosso? Glielo dicevo a Sergio appena è successo, che era naturale, perché chiunque - in qualsiasi campo - in Sardegna si muova in una giusta direzione, be’ gli si creano delle barriere perché non possa andare avanti.
Quando abbiamo letto delle firme raccolte per dire di “no” a questa ipotesi di Sergio, fino ad arrivare a questa direttrice dell’Istituto di Preistoria di Firenze che dice che Sergio è pericoloso perché sta inculcando nei Sardi un orgoglio smisurato...
Be’, io dico veramente che siamo tornati indietro! E lo dico con rabbia...
Quando nel periodo fascista e anche prima dicevano, per uno che non era capace a lavorare, ti mando in Sardegna per punizione: io credo che ci dobbiamo ribellare a questa cosa, ma con tutta la forza. E il suggerimento che nasceva da questa proposta di dare la cittadinanza a Sergio, è quello di partecipare tutti, per esempio, ad una raccolta di firme contro quelle 250 firme. Io credo che oggi noi potremmo raccoglierne migliaia di firme: non penso che sia necessario essere esperti o scienziati per dire “grazie” a Sergio per quello che sta facendo. Ho accennato anche prima che io non sono uno scienziato: non posso dibattere queste tesi. Però l’orgoglio - il sogno - di essere partecipe della grande cultura del Mediterraneo, questo lo voglio sostenere”.
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Succede di tutto... Prima o poi le centinaia di lettere che hanno accompagnato quest’avventura andranno fatte conoscere. Da Venezia, Franco Laner, ordinario di architettura a Venezia, spedisce un e-mail rovente alla Presidentessa dell’IIPP. E me la invia, per conoscenza:
«Ho letto l’“Appello agli studiosi di scienze dell’Antichità del mondo mediterraneo e, visto che ho anche un insegnamento di “Teorie e storie delle tecnologie costruttive” mi sono sentito coinvolto, poiché credo che anche conoscere tecniche e magisteri del passato possa contribuire a definire il quadro di ogni civiltà. L’arte del costruire ha una sua storia e cultura.
Ho letto il libro di Frau. Perciò non riesco a capire tanto accanimento reazionario ed oscurantista nei confronti di un libro che con impegno cerca di mettere ordine nel Mediterraneo: si può in parte, o in tutto dissentire, ma è la prima volta che leggo un appello contro un libro!
Se poi leggo la lista dei firmatari, la sorpresa non è poi così grande. Ho avuto a che fare con le Soprintendenze sarde: se metti un piede nel recinto degli scavi, te lo tagliano! Ho annotato in un libretto “Accabadora” tante e tali sciocchezze dell’archeologia sarda, ma soprattutto l’inerzia di molti di quei personaggi che firmano contro un libro. Firmassero invece qualche buona memoria scientifica sugli scavi che mai concludono e cominciassero a mettere ordine nei reperti ammucchiati negli scantinati e lasciassero che la terra continui a conservare i monumenti, senza “scoprirli” ... Decine di scavi inconclusi di monumenti nuragici sono tutt’ora lasciati all’ingiuria del tempo e dei tombaroli, in attesa di nuovi finanziamenti (dicono loro) e della loro riprovevole manomissione (dico io)...».
Firmato: Franco Laner, Venezia, 11 gennaio 2005
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L’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa - dove insegnano alcuni miei miti - mi chiede un corso sul Mediterraneo rivisto e corretto... In Oricalco - il gruppo yahoo creato nel net da Fabio Milito Pagliara, per interrogarsi e ragionare in libertà e serietà sulle ipotesi venute fuori dall’inchiesta sulle Colonne e sulle loro conseguenze sul Mediterraneo antico - l’indignazione sale alle stelle. E, poi, ritorna giù, sul Branco dei firmatari.
Stefano Loi - che non conoscevo e che con una telefonata asciutta asciutta, alla sarda, mi aveva solo avvertito che stava ultimando la sua tesi per Teoria e tecnica della Comunicazione di Massa all’Università di Macerata, dal titolo “Atlantikà: il dubbio nella certezza delle scienze; i dubbi nella fortezza dei media” - è costretto ad aggiornare di continuo e aggiungere nuovi capitoli (sull’ “Appello Antifrau”; sui travasi di bile; sull’incontro Unesco di Parigi) a quella sua dettagliata radiografia che - ben scritta com’è - prima o poi, diventerà un libro.
Poco tempo dopo, arriva anche il premio Amistade, duas animas ad Olbia.
Mario Bua - che si fa in quattro ogni anno per organizzarlo a dovere con i quattro soldi che rimedia per far arrivare gente da tutto il mondo - mi ha chiesto, poi, uno scritto per il numero speciale di Amistade, una sorta di miniantologia con gli interventi dei premiati.
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(Proprio da Olbia di tanto in tanto parte in tournée anche un archeologo della Soprintendenza che - pur di rendersi gradito al suo capo, avendo poi buon eloquio e bella presenza - si mette a battere l’Isola con la sua conferenza «Sardegna = Atlantide? No grazie!». Battendo, battendo - visto che, poi, tra sbeffeggiamenti, risatine, punzecchiature, non lo sa spiegare mai del tutto il perché i Sardi d’improvviso abbiano smesso di tirar su le loro torri; né perché quelle in pianura sia infangate, e quelle d’altura intatte; né come mai lì, nell’Isola, sia arrivata la malaria; né quell’altro strano mistero che (dal XII secolo a.C. e per secoli) non si trovino più tombe di nessun genere; e neppure come mai un’isola così, tanto fortificata, armata, popolata, possa esser stata conquistata da drappelli di astuti Fenici - battendo, battendo, lascia sempre tutti i suoi spettatori con cento dubbi e la curiosità di saperne di più. L’Università della III Età di Sassari, il giorno dopo averlo ascoltato, mi voleva invitar lì per sentire la mia di versione. Inutile descriverla la soddisfazione di poter rispondere che la mia versione è in un libro, non in quattro chiacchiere e due battutine dal pulpito...)
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Mi piace - alla vigilia della presentazione della mia ricerca e della mostra all’Accademia dei Lincei - finirlo questo dossier un po’ amaro con le parole che, poi, ho fatto avere a Mario Bua per Amistade. L’energia pulita, solidale, che la Sardegna mi sta regalando è un vero portento: funzionerà - come aglio per vampiri - quando cercheranno di sbranarmi ancora?

Un Branco mi azzanna... L’Unesco mi ospita... Un Premio mi difende.

Non riusciranno mai neppure a immaginarselo quanta forza - e orgoglio, e passione, ed entusiamo- è possibile ricevere dai propri lettori. E da un premio così, come questo - arrivato a sorpresa, da gente per bene - con stima, solidarietà ed affetto...
... A quel loro Appello il Mediterraneo intero ha risposto, poi, snobbandoli con un certo fragore: dal Fascismo in poi non c’è più persona colta e civile disposta a metter firme contro un libro. A me il Mediterraneo e, soprattutto,laSardegna ha risposto con attestati di solidarietà e riconoscimenti che - messi ora tutti insieme, sulla bilancia - mi obbligano a ringraziarlo quel Branco di Chierici: difficilmente, infatti, può capitare di sentirti un’isola intera a fianco, a spalleggiarti...
... Il premio Amistade/Duas Animas di Olbia multietnica e la cittadinanza onoraria di San Sperate sono arrivati quasi in contemporanea, a darmi affetto...
Intellettuali veri, lì, da voi: dalle Americhe, dalla Spagna, dalla Germania turca, dalla Cagliari di un tedesco innamorato di natura sarda, dalle Barbagie della Poesia e dei Ricordi. E anche dalla Memoria: con le musiche di un tempo salvate - vivaddio - da un giovane e quelle letture belle di Pasolini, e su Pasolini ma in limba...
Intellettuali veri, anche lì, a San Sperate: con il grande Pinuccio Sciola, e Paolo Lusci, e Nino Nonnis che ti cita Popper a sorpresa, e il sindaco Gesuino Mattana che - al microfono - spiegavano cos’è la libertà di ragionamento e, anche, quanto volgare - e ottuso, e corporativo, e controproducente - fosse stato l’assalto di quel Branco... E, pure, in contemporanea, centinaia di lettere ed e-mail dalla Sardegna... E interventi sui giornali di altri intellettuali che neppure conoscevo... E il traguardo delle 20 mila copie vendute - anche grazie a quell’agguato - solo lì, nell’Isola... E le Università che mi chiamano a tener corsi, a far conferenze... E il libro che uscirà in Germania, Spagna, Francia E amiche di Barbagia che mi mandano gli amuleti contro quel mal’occhio... ”
... Al poker dei Registi di quell’Agguato - Santoni Vincenzino, Francesco Nicosia (ma anche lo scrittorello Giulio Angioni e il ras di fenicerie iperfinanziate Piero Bartoloni) - e a quei loro chierici, devo solo dei ringraziamenti: senza di loro, forse, tutte queste altre soddisfazioni e solidarietà, difficilmente le avrei mai avute.
Un po’ d’invidia, lo confesso, mi rimane soltanto per Santoni: lui, di firme “contro” - quando nel 1998, sperando di poter realizzare un libro da 270 milioni (vedi l’allegato al Protocollo 8840 del 9/11/1998 in www.colonnedercole.it), firmò la concessione e permise di foderare a morte l’Anfiteatro di Cagliari - lui di firme “contro” ne ebbe ben 7000!
Io, soltanto 300...
E contro di lui, e quel suo scempio, firmò (ma inutilmente) addirittura Giovanni Lilliu.
Contro di me, no.
Questo, però, fa una certa differenza...”.
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Ultim’ora. Giusto l’altra primavera, Antonio Giovannucci nuovo direttore regionale dei Beni Culturali della Sardegna, appena arrivato a Cagliari, vede con raccapriccio l’Anfiteatro firmato Santoni e reagisce da amante dell’arte antica.
La Nuova Sardegna del 14 maggio 2005, titola forte: «Non sembra neppure un anfiteatro». Seconda riga: «È un intervento folle...». Nell’occhiello: «Il nuovo direttore sconvolto dalle condizioni dell’arena romana coperta dalle strutture di legno». Nell’articolo Mauro Lissia - dopo aver ben spiegato che c’erano stati sei miliardi del Giubileo da spendere in fretta e furia per la valorizzazione di Beni Culturali, e che la giunta di allora «valorizzò l’anfiteatro romano nascondendolo alla vista» - riporta senza filtri gli spietati giudizi di Giovannucci: «Quando ho visto com’era ridotto il monumento mi sono chiesto chi, qui a Cagliari, gestisce i lavori pubblici»; «Non è possibile tollerare una situazione del genere»; «... è assurdo il metodo per disporre questi tavoloni di legno, perché annulla completamente l’aspetto dell’Anfiteatro»; «Ho visto metallo, molto metallo, plinti conficcati nella pietra originale».
Giusto quest’estate 2006, poi l’assessorato alla cultura della Regione Sardegna, ha bloccato anche i lavori immobiliari che stavano strangolando a morte Tuvixeddu. Vivaddio.
Ci son voluti sette lunghissimi anni a capire quel che Giovanni Lilliu, Maria Antonietta Mongiu, Marco Pisano e altri 7000 Sardi avevano visto con allarme fin dai progetti, denunciato per tempo, affidato alle penne di giornalisti non codardi.
(Sette lunghissimi anni per aver conferma ufficiale - ministeriale! - che quegli articoli di denuncia pubblicati su Repubblica non erano “forconate”, ma soltanto un dovere civico. E che - nonostante i corporativismi della Sestieri - se un funzionario non funziona va segnalato, non coperto).
Provvedimenti?
Grotteschi!
Un vero paradosso: ci aspettava un’inchiesta amministrativa o giudiziaria, è arrivata una promozione. Figurarsi che ora Santoni Vincenzino non è più responsabile per l’archeologia soltanto di Cagliari e Oristano, ma - a interim, per un anno ancora - è Padrone dell’intera Sardegna.
L’unica vera speranza - a questo punto- è che non faccia nulla di quel che fin’ora ha fatto.