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Trascrizione degli interventi alla mostra-convegno all’Accademia dei Lincei «Cosa c’era dietro le "prime" Colonne d’Ercole», l’11 ottobre 2006 a Roma

mercoledì 24 giugno 2009

Intervento del professore Giovanni Conso
(giurista, Presidente dell’Accademia dei Lincei):

...Sono le 15 e 15 e quindi possiamo senz’altro iniziare anche perché le presenze sono numerose e quindi non solo ringrazio per l’affluenza ma anche mi scuso per quel quarto d’0ra accademico ormai trascorso... Per chi è arrivato da tempo è stato un peso forse... Ma cercheremo di alleviarlo al meglio con questo pomeriggio estremamente intenso perché sotto l’insegna del concetto doppio Mostra-Convegno, c’è il Convegno e poi c’è la Mostra e quindi è un incontro prolungato. Direi che è una forma moderna questa di abbinare al convegno o magari alla tavola rotonda, si può chiamare in vari modi, un incontro di studio e anche una mostra, un qualcosa di visivo: qualcosa che dimostra, che richiama gli occhi oltre che la mente e le orecchie.
Non è la prima volta che il Comitato Nazionale per il IV centenario della storia dell’Accademia dei Lincei organizza convegni incontri ma anche mostre, è una bellissima prassi che si è costituita per merito del professore Edoardo Vesentini e dei suoi collaboratori, di realizzare delle mostre accanto o insieme o dopo o prima i convegni.
Allora io devo fare un saluto, e do un saluto, il saluto dell’Accademia che ospita in questi locali l’incontro e la mostra poi un po’ più in là alla fine del pomeriggio, e continuerà nei giorni prossimi l’apertura della mostra... Ringrazio appunto per avere organizzato questo incontro, questo convegno e questa mostra, per il tema suggestivo scelto e per la tematica che è anche presente nel titolo, una sorta di quesito, c’è il punto interrogativo e quindi vuol dire che è un tema da discutere a fondo, molto a fondo, anche se antico: le Colonne d’Ercole, si torna all’antico. Però i quesiti restano, ovviamente, non solo per le scoperte del presente o del futuro, ma anche del passato: la storia continua ad essere un libro aperto da scavare di più, da guardare più a fondo, da fotografare meglio per aggiungere pensieri, tensioni, idee, approfondire conoscenze della storia del mondo è di una complessità grandiosa. I punti interrogativi ci saranno sempre ovviamente.
Questa volta il titolo è ancor più suggestivo, è un titolo molto suggestivo: perché la domanda è “Cosa c’era dietro le “prime” Colonne d’Ercole?”. Dove non è soltanto il problema delle Colonne d’Ercole, ma le “prime”, tra virgolette il titolo pone l’accento su le prime Colonne d’Ercole sottintendendo che ce ne sono state le prime le seconde, le terze e, forse, anche le quarte. Nel senso che è un qualcosa che è stato studiato, è stato approfondito scientificamente, magari culturalmente, magari anche con la fantasia, spendendo l’ingegno per cercare di ritornare indietro nel tempo nei secoli nei millenni...
E quindi “prime” Colonne d’Ercole, cosa c’era dietro?...
La domanda sottintende una risposta: c’era la Sardegna, tant’è vero che la mostra è soprattutto dedicata al mondo sardo, che in quell’epoca, in quel momento dove si parlava da Cartagine al Canale di Sicilia, allo Stretto di Gibilterra, a un certo momento una tesi importante fece risaltare il ruolo della Sardegna, la centralità della Sardegna, diciamo pure anche del Mediterraneo; anche se chiamata Atlantikà è soprattutto, è anzitutto Mediterraneo, da Cartagine al Canale di Sicilia alla Sardegna a Gibilterra e poi si sfocia più in là...
Credo che diranno molto bene coloro che parleranno dopo a cominciare dal presidente Vesentini e poi dal professor Godart che terrà la relazione introduttiva. A me preme solo una cosa ancora un attimo, e cioè che la gratitudine per chi ha pensato a organizzare questa mostra-convegno è ancora più forte perché ci si riallaccia, con questo incontro, a quanto nell’aprile del 2005 è avvenuto a Parigi quando, sotto l’egida dell’Unesco e nei suoi locali, è stato tenuto un convegno che corrispondeva in sostanza alle problematiche alle idee ai concetti ai contributi di questa giornata nostra, di questa nostra iniziativa. Era intitolata quella giornata, martedì 12 aprile 2005, “La connaissance du monde ancien: où étaient les Colonnes d’Hercule?”. Quindi per conoscere il mondo antico bisognava risalire alle Colonne... Dov’erano è un tema che ritorna, e non si placherà mai certamente, ogni contributo è alla fantasia all’intelligenza al gusto e anche alla ricostruzione storica.
Passo ora la parola al presidente...

Intervento del professore Edoardo Vesentini
(matematico, Presidente del Comitato per le celebrazioni per il IV centenario della fondazione dell’Accademia dei Lincei):

Ringrazio molto e mi associo al professor Conso nel dare il benvenuto a tutti i presenti e ringrazio in particolare il professor Conso per l’ospitalità offerta a questa giornata internazionale proposta da Sergio Frau e che verrà presentata fra poco da Louis Godart e seguita, poi, da una tavola rotonda, alla quale sono invitati poi a partecipare naturalmente tutti i presenti.
Voglio portare via solo pochissimi minuti alla relazione di Godart per specificare, per cercare di chiarire, come mai il Comitato organizzatore per le celebrazioni del IV centenario si sia improvvisamente occupato delle Colonne d’Ercole: devo dire che per quanto i Lincei abbiano tradizionalmente un occhio particolarmente profondo nella distanza, certo risalire ai tempi di Atlantide è uno sforzo che forse è eccessivo per quanto riguarda l’Accademia. Invece secondo me questo rientra proprio nelle finalità di questo IV Centenario per le ragioni che dirò fra un momento. Intanto voglio sottolineare il fatto: questa è un’iniziativa del Comitato Nazionale per il IV Centenario dalla Fondazaione dell’Accademia dei Lincei, che è giunto ormai al termine della sua attività, che si concluderà nel giro di un paio di mesi con una mostra-convegno dedicata al Tesoro Messicano.
È stata un’attività lunga intensa produttiva in qualche senso: ha prodotto convegni, ha prodotto mostre, ha prodotto pubblicazioni, numerose pubblicazioni. Ma è stata anche un’attività educativa.
Educativa per chi?
Per lo meno per il sottoscritto e credo anche per tutti quelli che hanno collaborato, con i quali abbiamo collaborato per mettere insieme queste varie iniziative, perché ci ha dato un’idea più chiara, più - in certa misura - inaspettata del significato di quello che è stata l’Accademia, che è l’Accademia dei Lincei, e quindi ci dice anche perché è naturale per noi improvvisamente dedicarci a questo tema caro a Sergio Frau.
Anzitutto la storia dell’Accademia dei Lincei è diversa dalla storia delle grandi accademie, che sono nate dopo, come siamo molto orgogliosi di dire ogni volta, ma anche poco dopo l’Accademia dei Lincei, penso alla Royal Society, penso all’Institut de France, penso per esempio all’Accademia Imperiale Russa delle Scienze che hanno una loro identità precisa, delle responsabilità precise, una visibilità precisa sin dalla fondazione senza interruzione; l’Accademia dei Lincei ha avuto una storia completamente diversa: è stata attiva, gloriosamente attiva, per pochi decenni dopo la sua fondazione nel 1603, poi è stata soppressa pochi decenni più tardi. È rinata in luoghi diversi e talvolta in forme spurie, riaperta nella Roma di Pio IX e poi, dopo la breccia di Porta Pia come Reale Accademia dei Lincei nella Roma capitale del Regno d’Italia, soppressa dal regime fascista, rifondata nel 1944 nell’Italia democratica.
Ma l’aspetto rilevante della sua storia non sta certo nella ricca aneddotica fiorita intorno alla nascita dell’Accademia, nelle vicende pur rilevantissime - la vicenda di Galileo, tanto per fare l’esempio più glorioso - ma è stata... quello che mi interessa segnalare non è stata tanto la fondazione dell’Accademia quanto l’invenzione, la realizzazione dell’Idea Accademia che aveva Fedrico Cesi, questo giovanotto di 18 anni che l’ha fondata nel 1603.
“L’Accademia - scrive Eugenio Garin - luogo ideale delegato a favorire non solo le ricerche - e qui si apre il discorso più vicino alle cose di cui ci occupiamo oggi - ma il confronto e il contrasto, commisurando il nuovo con l’antico in tutte le sue difficoltà e contraddizioni per raggiungere nuove sintesi e originali visioni d’insieme sì - continua Garin - che per capirne senso e compiti conviene innanzitutto cercare la consistenza delle divergenze facendone emergere il valore”.
Questo è il messaggio che ci ha trasmesso Federico Cesi. E questo non è un messaggio che nasce soltanto dall’interno di una riflessione intellettuale a largo raggio, ma, e quella è la cosa secondo me più importante cha va sottolineata, nasceva all’interno delle problematiche che Cesi affrontava come scienziato, come ricercatore. Lui vedeva proiettata questa visione, che è in tutti noi tutte le volte che ci occupiamo di ricerca e di cultura, la vedeva proiettata in questa Accademia, e questa è la novità dell’Accademia dei Lincei di Federico Cesi.
Problemi che lui trasferiva su un palcoscenico ampio, ma che nascevano all’interno di una sua specifica competenza: perché purtroppo noi possiamo dire che la storia di Cesi fondatore dell’Accademia ha un po’ sacrificato il Cesi studioso, il Cesi scienziato, uno dei primi navigatori nella storia della scienza moderna, che era essenzialmente concentrato su problemi di biologia: e a questi suoi aspetti abbiamo dedicato difatti due convegni, uno che si è tenuto ad Acquasparta nel 2003 e uno a Perugia pochi mesi fa. Ma questo era l’aspetto più importante: questa sua capacità di riportare all’interno di un’Accademia il gusto di discutere, di contraddire, di demolire, di opporsi, di sottoporre ogni affermazione ad un’analisi spietata. E questo è il contenuto del lavoro dell’Accademia in tutti questi anni...
E Cesi, invece, è stato un po’ come dire inamidato: e Cesi fondatore dell’Accademia, Cesi distributore di lauree e accademici, Cesi come diremmo oggi un grande organizzatore di cultura... non so come si potrebbe definire altrimenti. Ecco questo un Piero Angela del 1600, in qualche senso, no?, ma era soprattutto un Cesi ricercatore che voleva vedere questo modo di ragionare, di esporre, portato a un livello più alto a un livello dell’Accademia nazionale dei Lincei.
E questo era proprio quello che coglieva Garin con quelle sue parole sul confronto e il contrasto e le divergenze; e del resto poi sul piano generale della cultura è stata una cosa riscoperta tante volte: basta prendere per esempio il libro “Politica e cultura” di Norberto Bobbio e trova le prime righe del libro che si leggono: “il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dubbi non già di raccogliere certezze”. Questo è il senso dell’Accademia, questo è il senso del convegno di oggi. Vi ringrazio...

Intervento del professore Louis Godart
(accademico dei Lincei, antichista, consulente per l’arte e l’archeologia del presidente Giorgio Napolitano):

Quanto mi piacciono le parole di Edoardo Vesentini che mi ricordano le parole di un illustre personaggio il quale, appena nominato all’Institut de France, scrisse: “Le più belle conquiste sono le conquiste che un generale ha potuto fare sconfiggendo l’ignoranza”. Questo personaggio si chiamava Napoleone. Ed era appena uscito vittorioso dalla campagna d’Italia.
Quindi siamo qui veramente per discutere di un libro che è stato accolto con interesse ma anche con una certa animosità da parte del cosiddetto pubblico scientifico. E lo facciamo in questa magnifica palestra che è l’Accademia Nazionale dei Lincei, il cui compito, come ha detto bene Vesentini, è precisamente di portare alla discussione e di sottoporre delle tesi, delle teorie alla analisi di tutti.
Questo libro di Frau è uscito poco prima che un altro libro dedicato a un tema simile, Atlantide, uscisse in Francia: è il libro di Pierre Vidal-Naquet “L’Atlantide”, e Vidal-Naquet, scomparso pochi mesi fa, non ebbe il tempo di prendere in considerazione il lavoro di Frau. Tuttavia nota alle pagine 128 e 129, cito Vidal-Naquet: «Alors que ce livre était déjà largement avancé, j’ai pris connaissance d’un livre lancé avec quelque fracas et dont on peut traduire ainsi le titre “Les Colonnes d’Hercule, une enquête” avec ce sous-titre: “Comment, quand et pourquoi la frontière d’Héraclès-Melqart, dieu de l’Occident, a glissée pour toujours à Gibraltar”. Son auteur Sergio Frau est un journaliste mais il y a des historiens qui sont des mauvais journalistes et des journalistes qui sont des bons historiens». Pone il problema, «est-ce le cas de Sergio Frau». E continua Vidal-Naquet «la thèse, appuyée par exemple par Luciano Canfora, grand erudit et grand amateur de paradoxe, est que les colonnes d’Héraclès, qui sont localisées depuis Hératosthène - terzo secolo a.C. - au détroit de Gibraltar, étaient situées avant ce géographe au détroit de Sicile. Quant à l’Atlantide elle n’est autre que la Sardaigne, ce qui rend cette thèse difficile et que, comme je l‘ai montré, c’est la place aujourd’hui marocaine qui est decrite par Erodothe et quelle n’existe pas dans un seul texte antique qui aille dans le sens de cette localisation».
Quindi Vidal-Naquet riassume credo - vero Sergio - molto bene la tua posizione, che è duplice: le Colonne di Ercole a un certo momento della storia del Mediterraneo antico non erano collocate allo stretto di Gibilterra, ma bensì al Canale di Sicilia... Atlantide invece sarebbe la Sardegna, benissimo.
Allora vorrei cercare di ragionare su queste due tesi di Frau.
Dico subito che condivido pienamente la prima, mentre vorrei esprimere delle perplessità sulla seconda, sulla storia di Atlantide. Quello che colpisce profondamente chi si è interessato all’antico, per non dire all’antichissimo, passato del Mediterraneo - parlo del terzo e del secondo millennio a.C. - è che effettivamente la centralità del mondo mediterraneo è tutta collegata al Mediterraneo orientale. È nel Mediterraneo orientale che si sviluppano le prime due grandi civiltà europee, la civiltà minoica e la civiltà micenea. Possiamo, sulla base dei documenti scritti che ci sono pervenuti, avere un’idea abbastanza precisa di quello che era il raggio d’azione della civiltà micenea, perché precisamente nel 1952 ad opera di un altro dilettante, Michael Ventris, la scrittura lineare B ha potuto svelare i suoi segreti, e Ventris, studiando questa scrittura lineare B, ha dimostrato che i testi rinvenuti nei palazzi micenei di Cnosso, di Pilo, di Micene, di Tirinto e di Tebe, risalenti al II millennio a.C., erano dei testi scritti in greco. Orbene studiando l’orizzonte geografico che appare dall’analisi di questi documenti, vediamo che tutti i nomi, assolutamente tutti i nomi, di tutte le città e di tutti i paesi legati all’espansione commerciale o ai rapporti politici con il mondo miceneo sono paesi e città del Mediterraneo orientale: c’è l’Egitto, c’è Cipro, ci sono le città della costa siro-palestinese, ci sono le città, tante città, della costa ionica, ci sono le isole dell’Egeo.
Non appare assolutamente un solo riferiment0 al mondo del Mediterraneo occidentale. Bene. Per quanto concerne il mondo minoico più antico, i cui testi non sono stati decifrati, abbiamo invece importanti testimonianze archeologiche, le quali vanno esattamente nello stesso senso. Dall’analisi dei reperti della civiltà minoica appare molto chiaramente che il raggio di azione di Creta - e di quello che fu il primo imperatore dei mari, Minosse - è tutto concentrato sul Mediterraneo orientale, anzi - e ne riparlerò più avanti - appare molto chiaramente che nella seconda metà del II millennio a.C. l’impero minoico abbracciava tutte le isole dell’arcipelago egeo, da Samotracia fino a Creta. Ora se cerchiamo di ragionare su questi dati inconfutabili appare davvero che la famosa Cortina di ferro doveva, per il Mediterraneo verso Occidente, doveva effettivamente collocarsi là dove la colloca Sergio Frau, perché il Mediterraneo occidentale, che è stato sporadicamente frequentato da spauriti commercianti egei, è veramente un mondo molto lontano e totalmente estraneo alla sfera politica e commerciale dei regni costituiti dell’Egeo minoico e della Grecia micenea.
Allora: in un contesto di questo genere, francamente lo specialista del Mondo Egeo non può che sottoscrivere quello che ha avanzato Sergio Frau. Si ha la netta impressione, rileggendo la storia del III e del II millennio a.C., che vi era una specie di frontiera collocata dalla parte in cui la sta collocando Sergio Frau. Al di là di questa linea sono dei lidi poco frequentati, e sporadicamente, da un commercio che non è certamente un commercio statale.
Bene, detto questo per la prima parte del nostro discorso vorrei ora brevemente affrontare la questione di Atlantide, la quale - come dicevo prima - la quale equazione Atlantide-Sardegna mi lascia personalmente un po’ perplesso alla luce di nuovo di quella che è l’esperienza egea.
Voi sapete naturalmente che il primo a parlarci di Atlantide è stato Platone, Platone che insiste pesantemente a più riprese sul fatto che questa storia non è un mito ma è veramente il racconto, una descrizione, e questa descrizione viene ovviamente da un serbatoio estremamente antico delle tradizioni del Mediterraneo quale era l’antico Egitto.
Cosa appare da questo racconto? Ma appare che, effettivamente, in un passato estremamente remoto, vi era una terra particolarmente fertile, circondata dalle acque, che conosceva una prosperità economica straordinaria e che a un certo punto è stata inghiottita, distrutta da vari terremoti e inghiottita dalle acque dell’Oceano. Quello che appare sempre più vero, alla luce delle ricerche archeologiche più recenti e anche alla luce dell’analisi dei testi, è che tutte le leggende e tutti i miti dell’antico Egeo, ma oserei aggiungere e non solo dell’antico Egeo, affondano le proprie radici nella storia.
Prendo due esempi: il famoso esempio della talassocrazia di cui parla Tucidide, questo grande storico ateniese ci parla ovviamente dell’archeologia e ci parla in particolare dei tempi lontani in cui vi fu da parte di Minosse la colonizzazione delle isole dell’arcipelago egeo. E molti hanno sostenuto e scritto che questa era una tesi sviluppata da Tucidide per spiegare agli ateniesi l’antichità dell’imperialismo ateniese, che questa tesi non era basata su alcuna considerazione di ordine storico.
Ora, sinceramente, alla luce delle scoperte e delle ricerche più recenti nel campo dell’archeologia egea - e mi ricordo all’Institut de France quattro anni fa ho avuto l’occasione di parlarne con M.me de Romy - appare chiaramente che questo racconto di Tucidide è tutt’altro che un racconto mitico.
Oggi appare che effettivamente questo famoso passo di Tucidide, quando dice che Minosse ha installato i propri figli nella maggior parte delle isole dell’arcipelago diventando così il colonizzatore dell’arcipelago, appare che questa frase corrisponde a una realtà storica inconfutabile. Un’isola lontana dall’epicentro egeo come Samotracia, oggi - grazie alle ricerche di un giovane collega greco che si chiama Dimitri Matsas - si è rivelata essere un centro politico e amministrativo collegata con Creta e in mano a colonizzatori egei all’alba del II millennio a.C. Potrei dire la stessa cosa per Milo, per Pera e per Citera e tante altre isole dell’arcipelago egeo...
Quindi, vedete, questa talassocrazia di Minosse di cui ci parla Tucidide, che per tanto tempo è stata considerata frutto di un’invenzione a tavolino del grande storico ateniese, in realtà è una talassocrazia di cui le testimonianze archeologiche sono innumerevoli.
Prendo un altro esempio: la famosa questione del vello d’oro.
Quando nel 1996 sono tornati all’ammirazione del pubblico i famosi gioielli scoperti da Schliemann a Troia - sono esposti al Museo Puskin, erano stati portati in Russia nel maggio del 1945 dall’Armata Rossa - molti studiosi hanno naturalmente intrapreso lo studio e l’analisi di questi reperti: è risultato lampante che il metallo che era stato utilizzato per fabbricare questi gioielli era un metallo che proveniva dalle miniere del Caucaso. E sappiamo che la roccaforte di Troia ha recitato un ruolo determinante nella diffusione verso le civiltà dell’Egeo, quindi verso il sud-ovest, e verso le civiltà della Mesopotamia, verso il sud-est, delle materie prime, in altri termini i metalli preziosi, che provenivano dalle miniere del Caucaso, e questo spiega la fortuna e anche la sfortuna di Troia.
Bene: quando uno tiene conto di questo fatto non può non collegare, ovviamente, questi dati con la famosa leggenda del Vello d’oro, di Giasone e dei suoi Argonauti che partono per il Mar Nero per conquistare il Vello d’oro. E mentre scrivevamo, Cervetti e io, il volume dedicato all’oro di Troia, Cervetti - che è stato per tanto tempo responsabile delle relazioni politiche e amministrative tra il partito comunista italiano e il partito comunista dell’Unione Sovietica - si è ricordato di un’esperienza da lui vissuta a più riprese nel Caucaso. Andando nel Caucaso - Cervetti è vissuto a lungo in Unione Sovietica - nel mese di aprile Cervetti, in piccoli villaggi del Caucaso, ha visto tante volte i contadini sbarrare i ruscelli che scendevano dalle montagne perché si stavano sciogliendo le nevi, per raccogliere in una pelle di montone le pagliuzze d’oro portate via dalle acque: questa è indubbiamente la storia del Vello d’oro e, quindi, vi fa vedere che vi è di nuovo dietro a questa conquista del Vello d’oro un fondo di verità storia che non possiamo contestare.
Bene: allora Atlantide...
Platone ci descrive veramente con grande precisione questa terra che è stata colpita da terremoti, questa terra che è stata inghiottita dalle acque, questa terra che era collocata in mezzo all’Oceano, dice lui, ma questo è ovviamente un punto di vista egiziano. E allora quando uno di rifa ai testi egiziani, quando cerca di interrogare la letteratura egiziana che parla nel III e nel II millennio a.C. del Mediterraneo orientale, si rende conto che è un mondo, da una parte vicino, perché da quelle zone provengono tanti prodotti che contribuiscono a incrementare la ricchezza del popolo della valle del Nilo, ma è nello stesso tempo anche un mondo molto nebuloso e perso un po’ in mezzo a quello che gli Egiziani chiamano il Grande Verde, cioè il mar Mediterraneo. Questo è il motivo per cui personalmente sono attratto dall’associazione tra Santorini, quell’isola che è stata scavata da Marinatos e che ora è scavata da Christos Doumas , che era un centro politico-economico estremamente importante, e che intorno al 1600/1500 a.C. è stata in gran parte, per i due terzi, inghiottita dal furore del vulcano e delle acque del mar Mediterraneo.
Questo è uno dei motivi per cui, ripeto personalmente, non sono convinto dell’associazione di Sergio Frau tra la Sardegna e Atlantide e preferisco la vecchia associazione proposta da Marinatos tra Santorini e Atlantide.
Detto questo, personalmente di nuovo rifiuterei la tesi di Vidal-Naquet sostenuta brillantemente in questo suo opuscolo, che vuole fare di questo racconto di Atlantide un racconto davvero mitico, cioè basato su una pura fantasia, non credo alla fantasia per quel motivo che dicevo prima perché le antiche leggende dell’Egeo, man mano che le riscopriamo, affondano tutte le radici nella storia. Ma già sono stato troppo lungo, queste brevi riflessioni per dirvi il piacere che personalmente ho avuto a leggere questo libro di Frau, che è un libro che suggerisce tante risposte ma pone anche tanti problemi. E questo - per riprendere la frase di Vidal-Naquet - è il libro di un buon giornalista che è anche un buon storico.

Intervento di Sergio Frau
(giornalista di “Repubblica” e autore de “le Colonne d’Ercole, un’inchiesta”):

... Arrivo subito io, così cerco di convincere - di convertire - alla Sardegna il professor Godart...
Salve. Insomma, i miracoli sono un po’ come le ciliegie: uno tira l’altro. C’è stato un miracolo all’Unesco e abbiamo qui in sala due facitori di quel miracolo: Mounir Bouchenaki e Azedine Beschaouch. E, adesso, c’è quest’altro miracolo qui, oggi...
Ringrazio tutti per esserci.
Del resto è proprio colpa dei Lincei se io, da inviato che faceva tre, quattro pezzi molto gradevoli al mese, mi sono massacrato per quasi tre anni per capire dove di preciso fossero le Colonne d’Ercole. Perché sia ben chiaro, appunto, Vidal-Naquet nel suo libro - l’Atlantide, che è interessante: è un’antologia - mette in fila i 7400 che hanno cercato Atlantide.
Io, invece, non l’ho mai cercata...
Il mio è il primo, unico libro sulle Colonne d’Ercole. Dopo parla Platone, dopo parla Omero e parlano di un’isola occidentale, dopo parlano i testi di Ramses III scolpiti sulle mura di Medinet Habu, quindi il “problema Atlantide” da risolvere, io lo lascio tra il professor Godart e Platone.
Io dico semplicemente che le primissime testimonianze - cioè da quando Pindaro parla delle Colonne d’Ercole nel 476 a.C. legandole a bassi fondali, subito dopo quel trattato del 509 che spaccò il Mediterraneo in due che fa scrivere a Sabatino Moscati: “Attenzione Cartagine volle calare qui, al Canale di Sicilia, una Cortina di Ferro nel mondo antico” - ecco proprio 30 anni dopo quel trattato, Pindaro per la prima volta usa il termine “Colonne d’Ercole”, ma dicendoci che venivano piantate in lagune, in bassi fondali.
Quindi, questa mia, è una mappa d’accesso a certi racconti ben precisi che vanno tra il V secolo a.C. e Alessandria d’Egitto.
Così come in archeologia abbiamo le stratificazioni, anche nei testi abbiamo le stratificazioni e, quindi, va parametrata ogni cosa al momento giusto. Allora: il primo mezzo chilo del mio libro è dedicato alle Colonne d’Ercole, il secondo mezzo chilo è un raffronto tra le parole degli Antichi che ci raccontano di un’isola mitica “al di là delle Colonne d’Ercole” - e con Santorini non ci siamo... - “che governa sull’intera Tirrenìa” - e con Santorini non ci siamo... - e che, con i Lebu, a un certo punto invade l’Egitto ma da Occidente. E, pure lì, con Santorini non ci siamo...
Quindi sto cercando di convincere il professore, di convertire più che convincere... Anch’io penso che Platone è un fior di signore che - innanzitutto scrive fuori dalla sua Accademia: “Non entri chi non sa la geometria” - quindi l’avvertimento è: “Signori, qua non si sta fantasticando”.
Io non uso una volta la parola Atlantide in 700 pagine...
Perché Atlantide nasce per chi la cerca e, soprattutto, per chi la cerca al di là di Gibilterra.
Tutt’altra cosa, però, è l’Isola di Atlante. E’ come la Roccia di Prometeo: il Caucaso. Questi due fratelli che all’alba e al tramonto chiudevano il mondo dei Greci. Ricordiamocelo: viene scelta Delfi perché Zeus libera due aquile dai confini di quel mondo, di quegli anni, che viaggiando, queste due aquile, una contro l’altra - una verso l’altra - s’incontrano a metà strada, a Delfi. Adesso vedrete in mostra - ma ce l’avete già anche sul dépliant - un piatto trovato in Etruria ma è attico, dove c’è un pilastro centrale che è Delfi, a Oriente c’è raffigurata la Roccia del Caucaso con Prometeo e l’altra figura, a Occidente, con Atlante nel mare, deve essere una fantasticheria? (E, anche qui, Santorini non ci siamo: è troppo decentrata).
Cioè: nord, sud, est, ovest, alba, tramonto, e poco altro...
Forse proprio perché io ho dovuto ragionare - che è poi la cosa che mi è venuta meglio - come un marinaio greco ignorante, per me le cose dovevano essere chiare...
Se mi dici che devo aver paura - alle Colonne d’Ercole - be’ me lo devi dire nella zona che fa più paura nel Mediterraneo, dove ancora oggi si muore di più, è la zona più assassina: il Canale di Sicilia... Ci naufraga San Paolo e bestemmia, quasi, col capitano dicendo “dovevano passare da Valona (cioè Apollonia), come si passava un tempo...
Quindi proprio grazie all’Unesco - questo lo devo dire - io ho molta fiducia, ho avuto sempre molta fiducia nella tradizione orale: l’intera storia del Mali sta venendo fuori analizzando gli antichi racconti trasmessi verbalmente... Lì, non si capiva più come mai si parlasse di un ambasciatore in Vaticano e poi viene fuori che c’era realmente nel 1200 un ambasciatore del Mali in Vaticano. Quindi la tradizione orale va presa per buona: è roba seria, e soprattutto a questi livelli, ai livelli di un Platone che poi ci parla di bronzo, di triremi, di certe cose che senz’altro non c’erano 9000 anni prima del suo racconto. E lo si sente - così come in Erodoto quando parla del tesoro di Delfi, ti accorgi che a un certo punto, mentre lui dice “mi hanno raccontato.... ho l’impressione”, poi quando parla dei doni di Creso a Delfi dice “... è un tripode di bronzo che pesa tot...” - che lì sta copiando. Così anche Platone: cioè non ti metti a fare la computistica del mito a ottant’anni. Se devi fare una parabola, una fiaba, be’ Platone aveva tutti gli strumenti per farlo. Qui , invece, sta raccontandoci un’isola d’Occidente che invade l’Egitto da Occidente, e dall’altra parte noi abbiamo già un Ramses II che si mette a fortificare tutte le frontiere occidentali e, poi, un Ramses III che si trova sulle mura di Medinet Habu fotografato a combattere contro gli “Abitanti delle Isole” - perché, poi, questo era il termine egizio - e quindi non capisco per quale motivo non dare fiducia a questo povero vecchio di Platone, soprattutto con tutte queste simmetrie mediterranee che sono davvero interessanti.
Volevo completare questa “simpatia lincea”, perché sinceramente io mi sento un miracolato oggi, giuro, parola d’onore, perché... mentre con voi v’avevo conosciuto... qui è stata una cosa venuta dall’alto, tipo “in hoc lynce vinces”... e però la colpa è dei Lincei, è del professor Castellani innanzitutto.
Una simpatia di professore, che io non conoscevo, astrofisico della Normale di Pisa e archeologo, che ha fatto un libro intitolato “Quando il mare sommerse l’Europa”: è lì che io ho visto quelle due cartine con Gibilterra e il Canale di Sicilia, in cui Sicilia e Tunisia quasi si toccavano. Ed è proprio su quello che mi è venuto il dubbio: ma se gli stretti un tempo erano due, perché laggiù?
Io sono un rompiscatole - e molti l’hanno capito - e il primo a cui ho rotto le scatole è il professor Carandini: gli ho chiesto “Professore, ma non c’è niente sulle Colonne d’Ercole?”, visto che mi era venuto il dubbio su queste cose... E lui: “Ma, guarda mi pare di no. Forse una fotocopia di un intervento...”. E mi ha trovato, il professore, uno scritto sulle molte collocazioni di queste Colonne d’Ercole.
A questo punto incominciavo ad avere delle certezze, e l’unico per un anno e mezzo con cui ne ho parlato è stato il professor Donadoni, che nella sua olimpica serenità mi diceva: “Frau stia calmo, a me sembra così normale che un confine slitti...”.
Poi sono arrivato a quella frase che c’è in mostra, che vedrete dopo, di Sabatino Moscati che diceva della “Cortina di ferro”... Alla fine di questa faticaccia d’Ercole... - io ero alto come il professor Vesentini e biondo come il professor Vesentini, prima - alla fine di questa fatica, ho mandato il mio libro al professor Castellani, che con quel suo studio aveva vinto il premio Feltrinelli, qui, dell’Accademia dei Lincei, così come l’ho mandato a Mario Tozzi che non conoscevo, solo per stima. Per un confronto con un geologo ed era un rischio grande azzardare queste cose: pure perché c’era lo scotto di Atlantide, da pagare, anche se tutt’altra cosa è la mia Isola di Atlante.
Rubo ancora un minuto, e poi chiudo.
Io col libro sono uscito a metà aprile, l’ho mandato subito al professor Castellani, che purtroppo non c’è più e che è... insomma... parlano ora le sue parole. Gliel’ho mandato. Lui mi risponde il 25 maggio.
Oggetto dell’e-mail: “Chapeau”.
“Caro Frau spero di aver identificato il suo e-mail e quindi... Dunque, come accenno nell’oggetto dell’e-mail mi levo tanto di cappello. Dico subito che il mio parere è da deformato accademico, la ricerca avrebbe forse meritato un tono non così insistentemente colloquiale, ma sono l’ultimo a saper giudicare le eventuali esigenze editoriali. In quanto al contenuto... accipicchia! Sarebbe un’ottima tesi di dottorato, bene impostata, ben documentata, se le tesi di dottorato fossero quello che dovrebbero essere e purtroppo spesso non lo sono. Un libro raro se non unico in tante assordanti e velleitarie approssimazioni, e dico approssimazioni per carità di patria. Anche lei lo sa che, qua e là, ha fatto il passo più lungo della gamba, ma di quel tanto che non nuoce e stimola la ricerca. La tesi centrale mi pare oltremodo convincente e mi libera da una perplessità: portando Atlantide in Gran Bretagna, dice lui, non è ovviamente serio pensare a una calata degli albionici sino ad Atene; arrampicandomi un poco sugli specchi io pensavo, ma non ricordo se l’ho scritto, proprio alle manifestazioni di megalitismo sardo come manifestazioni periferiche del megalitismo europeo, assegnando a quest’area periferica il compito di interagire col mediterraneo orientale. Ma per dirla, credo con Gotama, era come se dormissi e ora mi son svegliato... Ho un solo rimprovero da muoverle di avermi lusingato nominandomi zio e colpevole della sua ricerca, in realtà ne sono al più un lontano parente acquistato perché tutto il discorso si regge indipendentemente da quello che fece il mare. Un paio di commenti, e spero siano cose che non mi sono sfuggite in una prima lettura entusiastica ma affrettata: gli antichi parlano di Etruschi a Tartesso, potrei con qualche fatica trovare la citazione, tant’è che qualcuno ha speculato su una dicotomia nella migrazione dall’oriente. Le risultava? Una curiosità: non sono certo un semitista, ma Melqart mi richiama Mlq che equivale a re, signore... Ultima cosa, io sono in genere insofferente contro le critiche mosse al mondo accademico ma non nel suo caso, lei ha centrato un vero problema e mi augurerei, ma non ci spero troppo, che il suo piccolo grande terremoto servisse a far scivolare via un po’ di polvere dagli scaffali. Per favore mi telefoni, purtroppo non ho il suo numero e non ho potuto chiamarla. Grazie e sincere congratulazioni. Io vado a buttar via il mio libretto”.
Allora questa simpatia di un professore del genere, un mese dopo aver pubblicato il libro, ti dà un coraggio... E con il professor Donadoni, e con tanti altri... Insomma sono degli anticorpi... Ecco quel che volevo dire.
Insomma grazie a tutti per essere qui.

Intervento di Mario Tozzi
(primo ricercatore del CNR italiano, Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria c/o Dipartimento di Scienze della Terra, Università La Sapienza di Roma):

Mi presento subito, sono Mario Tozzi, sono un ricercatore del Cnr, ho ricevuto il libro di Sergio appena scritto; perché se si può condividere l’idea dell’origine fisica del mito - e lo si fa per tanti miti dell’antichità a cominciare da quello dell’interpretazione dell’oracolo di Delfi, ormai quasi certamente legato a esalazioni di idrocarburi lungo la faglia che sta sotto il santuario - a maggior ragione lo si può fare per l’ipotesi di Sergio. E infatti quello che abbiamo fatto è stato proprio di prendere il libro e andare in Sardegna a vedere se c’era qualche possibilità di verificare, da un punto di vista geologico - questo è il mio contributo, io sono un geologo - della parte appunto più fisica che c’è, più ancora di quella archeologica e storica evidentemente, perché poggia la sue eventuale radice sulle rocce, dunque sulla cosa più stabile che esista. La prima cosa, se Atlantide è finita sott’acqua, certamente non è finito sott’acqua un pezzo di continente, questo perché in tutta la terra conosciuta qualsiasi indagine geofisica non ha mai messo in luce un pezzo di crosta continentale sepolto sott’acqua, non c’è da nessuna parte, un pezzo di graniti sul basalto, per dirla in termini geologici.
Dunque se è stata sommersa dall’acqua lo è stata temporaneamente, per questo l’ipotesi di Santorini ha molta efficacia: c’è stato il cataclisma e c’è stato lo tsunami, dunque due elementi che servono a mettere da parte l’isola di Atlante per un po’.
La Sardegna è, invece, una terra geologicamente piuttosto tranquilla, almeno oggi; ma questo però anche per una mancanza di dati, perché della Sardegna a tutt’oggi, 2006, mancano per esempio le carte geologiche dell’interno, che sembra una cosa da stato non moderno: non ci sono! Dunque in realtà della storia geologica della Sardegna antica ne sappiamo poco. È una terra molto antica rispetto all’Italia, sempre data per tranquilla, non ha grandi terremoti, non ha manifestazioni vulcaniche di rilievo: dunque è stata considerata tranquilla.
Non è però stato sempre così perché, attorno al XIII secolo a.C. - mette in luce bene Amos Nur, che è un geofisico statunitense - di una probabile tempesta sismica che ha sconvolto quella parte del Mediterraneo e che ha avuto i suoi riflessi anche in Sardegna. Sappiamo poi che di fronte alla Sardegna, a sud e a est, ci sono apparati vulcanici sottomarini che nel caso in cui esplodessero o franassero sono in grado di generare tsunami: lo tsunami è quel che mi serve per sommergere temporaneamente la Sardegna. Però quanto deve essere forte, quanto deve essere alta la sua onda perché arrivi a buttare sotto il fango una gran parte dei nuraghi che si trovano nella parte meridionale dell’isola? Se mi avessero fatto questa domanda, se il libro di Sergio mi fosse arrivato 10 anni fa, avrei detto che era impossibile; ma invece sappiamo adesso, da studi condotti sulle isole di tutto il mondo e anche sulle zone peninsulari, che uno tsunami può essere anche sorprendentemente alto: lo tsunami del terremoto di Reggio Calabria e Messina del 1908 era di circa 12 metri, nell’onda più alta; lo tsunami del 2004 nell’Indonesia, nel sud-est dell’Oceano Indiano, ha raggiunto punte di 15 metri, ma grosso modo era più basso, intorno ai 10 metri, dunque non era altissimo. Sono tsunami da terremoti, normalmente non sono tanto alti come onda; ma esistono altri due tipi di tsunami: quelli causati dalle frane e dalle eruzioni sotttomarine: questi possono essere sorprendentemente alti. In Alaska sono state riscontrate ondate di tsunami di 450 metri, una cosa spropositata, una collina; nelle isole Canarie Simon Bay mette in luce la possibilità che il vulcano Cumbre Vieja frani a mare, nei prossimi anni, con un’ondata che nei pressi delle isole avrà un’altezza di un centinaio, 200 metri addirittura, ma la stessa ondata arriverà con almeno 50 metri di altezza fino in Florida, attraversando tutto l’Atlantico. Dunque i mega-tsunami, come si dice, sono un’evenienza che viene riscontrata con sempre maggiore frequenza specialmente nei bacini di mare piccolo, segnatamente nei golfi dell’Alaska e, perché no, nel Mediterraneo.
Noi non sappiamo se veramente è avvenuto un mega-tsunami in Sardegna, ma se questo fosse avvenuto e avesse mantenuto un fronte d’onda alto più degli tsunami normali ¬- non necessariamente i 450 metri di quelli dell’Alaska, ma 2oo metri forse sufficienti - sarebbe arrivato anche a 80 km da Cagliari, cioè dove si trova quel grande nuraghe di Barumini, quel “gigante abbattuto”, che mostra segni di sommersione dal fango come tanti altri là attorno.
Ecco, quello che ci ripromettiamo come geologi, quando ci sarà il tempo e quando ci saranno i fondi, è di esaminare la stratigrafia dei terreni della valle del Campidano da Cagliari fino a Barumini, perché, se in quella stratigrafia, si riscontrano rocce particolari dovute agli tsunami - sono rocce conosciute in tutto il mondo e si chiamano tsunamiti, sono particolarmente, come si può ben comprendere, caotiche come tipo di arrangiamento - oppure presentano fossili particolari - che provengono per esempio dal mare, quando vengono gettate su una zona lacustre si riconoscono molto facilmente - ecco se questi sondaggi potranno essere portati a termine avremo una traccia dell’eventuale evento naturale a carattere catastrofico.
L’ultima considerazione è sui metalli - l’altra considerazione geologica che posso fare - e cioè la Sardegna è veramente ricca di metalli, come è descritta l’Isola di Atlante in Platone: la Sardegna, l’isola dalle vene d’argento, ha attualmente solo piombo, zinco e antimonio e una serie vastissima di solfuri. Ma quelle miniere sono scavate fino dal tempo dei Fenici e, forse, ancora prima: oggi hanno, quei minerali di piombo, un tenore d’argento molto basso, di qualche grammo per tonnellata, non è nemmeno possibile sfruttarli, ma un tempo era molto più alto, tanto alto da giustificare racconti leggendari come quello dei Fenici che andavano via fondendo nel piombo argentifero anche le proprie ancore delle navi, pur di portarne via il più possibile. Dunque se l’argento era lì o il piombo argentifero, a quel punto la differenza diciamo era piuttosto poco evidente, e se l’isola grande era lì - l’isola dei tre raccolti l’anno e di tutte le altre cose che non competono la mia sfera di attinenza - ma se invece posso vedere dappertutto i porti nuragici con sopra le altre costruzioni come se fossero stati abbandonati di colpo, se vedo i nuraghe in parte scapitozzati come se avessero preso uno schiaffo dal mare, queste cose insieme se non tutte comprovate, almeno insieme fanno un forte indizio fisico che la radice del mito possa essere reale e non ricostruita. Dunque da questo punto di vista, come geologo e come ricercatore, sono rimasto colpito sempre molto favorevolmente dall’ipotesi di Sergio e per quello che c’è consuetudine fino a questo momento ha più presupposti positivi che non negativi.
Se riusciremo a portare a termine questa ricerca - anzi a farla cominciare, perché in questo senso ci sono state diverse difficoltà - bene, forse avremo una risposta ancor più precisa ad altri segni, che sull’isola possono essere interpretati in quella maniera. Questo per dire che quando, come tema più generale, quando cerchiamo di far colloquiare diverse discipline, quelle scientifiche, come la geologia - che è una scienza storica poi soprattutto - e quelle umanistiche, si riesce a trovare un piano d’intesa molto forte soprattutto se, tornando indietro nel tempo, il documento archeologico e storico scarseggia, ma quello geologico no, perché le rocce noi le leggiamo come pagine di antichi testi, come fanno gli archeologi, soltanto che non potremo mai vedere il libro ricostruito per intero.
Sappiamo che la nostra è una visione parziale, però su quello che c’è di parziale possiamo avere la forza, come geologi, di una scienza robusta come la fisica, dunque qualcosa che può appoggiare saldamente le radici di un’ipotesi scientifica, e questa è la ragione per cui ancora oggi, dopo tanti anni ormai di dibattiti di discussioni di ricerche, siamo appassionati da questa ipotesi...
Insomma: la accettiamo volentieri e volentieri andremo avanti su questa strada...
E non vediamo l’ora che qualcuno ci aiuti: non ci vogliono poi tanti soldi per fare un po’ di sondaggi. Ma diciamo, a parte quello, le idee ce le abbiamo e ci pare, anche dal confronto che abbiamo visto girando un po’ per il Mediterraneo, che questa della Sardegna, da questo punto di vista quindi geologico in senso stretto, sia un’ipotesi sempre più convincente. Grazie

Intervento di Andrea Cantile
(geografo e storico, direttore di “Universo”, rivista dell’IGM, Istituto Geografico Militare):

Signor Presidente, Signori Membri dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Signore e Signori, buonasera. La mia presenza a questa tavola rotonda è in rappresentanza dell’Istituto Geografico Militare, che, come molti sanno, è l’ente preposto alla realizzazione ed all’aggiornamento della carta ufficiale d’Italia e, come tale, organo cartografico dello Stato.
Porto pertanto a voi tutti il saluto del suo attuale comandante, Ten. Gen. Renato De Filippis, del comandante subentrante, Brig. Gen. Carlo Colella, che assumerà la direzione dell’Istituto tra soli cinque giorni, e del Prof. Salvatore Arca, che, come ha già annunciato il Prof. Edoardo Visentini, avrebbe dovuto essere presente a questo convegno, ma che è in questo momento a Monaco di Baviera per impegni istituzionali.
Mi è stato chiesto di centrare questo intervento sull’idea che mi ero fatta del volume di Frau e sul contributo che la Cartografia e le discipline ad essa affini potrebbero dare ad una così importante linea di ricerca, come quella da lui tracciata sugli argomenti di cui qui si discute.
Il mio incontro con Sergio Frau risale a circa tre anni fa, quando mi venne proposto di pubblicare su L’Universo la recensione di un libro intitolato Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta di Sergio Frau.
Il libro non lo conoscevo e non conoscevo nemmeno l’autore, che per me era solo uno dei tanti Carneadi del giornalismo italiano.
Ciò di cui si trattava era un’idea troppo grossa ed il dubbio che avevo al riguardo era ovviamente legato al timore che potesse trattarsi dell’ennesima fandonia, una nuova panzana, magari infarcita da un po’ di suggestione e da qualche effetto speciale, come molto spesso si assiste in certi scritti provenienti da stravaganti ricercatori o da archeologi della domenica, o da cercatori di tesori fantastici.
In quei giorni pensavo esattamente le medesime cose che Frau ha scritto nelle prime pagine volume, quando ha finto, da cronista, di dover commentare proprio la notizia sensazionale, ma non verificata, della scoperta delle “prime” Colonne d’Ercole ed ha confessato che l’avrebbe segnalata, terminando però con la solita formula di circostanza: “Si attendono, comunque, conferme scientifiche alla suggestiva, stravagante ipotesi...”, ma subito dopo aggiunge, fuori virgolettato, “Scrivi ipotesi e pensi sparata...”.
Ecco, io pensavo più o meno le stesse cose, ma la fiducia verso il proponente mi fece accogliere l’offerta e non solo pubblicai la recensione del libro, ma un po’ di tempo dopo, lo lessi e lo chiosai, pagina per pagina, riflettendo anche sull’ampio dibattito che da esso si era subito sviluppato. Un dibattito che ancora oggi, a distanza di quattro anni dall’uscita del volume, è vivo, tant’è che siamo ancora qui a discuterne; ed ancora credo che si discuterà dell’attendibilità delle ricche e delle stringenti argomentazioni che Frau presenta nel libro, riscuotendo plausi ed opposizioni, tra chi lo sostiene e chi lo osteggia.
Non si tratta, badate bene, di una divergenza di posizioni, n’é di confronti dialettici, come si può notare dal secondo volume che Frau ha pubblicato sull’argomento, raccogliendo contributi ed esperienze successive alla prima opera, ma di una netta opposizione.
Perché, dunque, questo contrasto?
La prima, ovvia, risposta a tale quesito è certamente perché non è ancora emersa la prova provata, la testimonianza incontrovertibile, che definitivamente dimostri la veridicità delle sue teorie.
La seconda risposta è che proprio lui, Sergio Frau, qualche torto in merito a questa vicenda, in fondo, ce l’ha.
Primo tra i quali quello di aver scritto un libro di 672 pagine (l’elemento quantitativo ricorre con tono compiaciuto nelle sue parole e con tono di apprezzamento in quelle di chi lo commenta), quindi un ‘volumone’, ma in modo piano, pure troppo, fresco, non strutturato affatto secondo la tradizione accademica ed addirittura simpatico, con un piglio umoristico. Anche se sugli argomenti trattati non c’è proprio niente da ridere, semmai ci sarebbe un ampio spazio per un riso amaro, dal momento che, oltre a cercare di dimostrare come la storia e la geografia sarebbero in parte da riscrivere, ha posto in evidenza una deludente omologazione scientifica, che ha per secoli fortemente condizionato non solo la ricostruzione di certi eventi, ma anche il modo di vederli, di studiarli, di discuterli. Frau ha messo in evidenza come certe volte nelle istituzioni pubbliche e nelle nostre università predichiamo bene e razzoliamo male, dal momento che esaltiamo l’importanza degli approcci interdisciplinari, sia in campo operativo sia nella ricerca, e poi ci chiudiamo negli argini dei nostri settori, vittime delle specializzazioni disciplinari. E senza nemmeno rendercene conto, realizziamo talvolta il paradosso del maestro, del professore e del docente universitario, che allinea queste tre categorie professionali in un digradante livello di sapere: l’insegnante delle scuole primarie è colui che sa poco di tutto (perché deve trasferire ai bambini un sapere ampio, ma poco profondo); il professore delle scuole secondarie è quello che sa tanto di poco (perché deve preparare il terreno ad una verticalizzazione del sapere, su base disciplinare); e l’accademico finisce per essere quello che sa tutto di niente (intento com’è ad approfondire sempre più le ricerche in campi via via sempre più specialistici).
Tutto questo ha forse mal disposto alcuni ed incuriosito altri: ecco perché lo stesso Frau lamenta dell’opposizione delle “Soprintendenze, spesso; di “qualche baroncino universitario, talvolta” e sottolinea il “deleterio ruolo della Spocchia...”, che giunge finanche ad affermazioni del tipo: “È un giornalista: faccia il giornalista ...” .
Come dire: “Ragazzo spostati, lasciaci lavorare!”
Dall’altra parte della medaglia, invece, c’è un largo successo.
E la chiave di questo successo è probabilmente, sì l’intuizione, senza la quale nulla sarebbe stato possibile per lui, ma principalmente l’approccio che Frau sceglie per affrontare il problema e per comunicarne gli esiti, senza spaventare il destinatario dei sui messaggi.
Ricorre chiaramente tra le sue pagine la modestia e l’umiltà di chi, pur forte di un’idea che sembra rivoluzionaria, tenta di dipanare un groviglio di fatti, di metafore, di “si dice” e “per non lasciarsi ipnotizzare”, la soluzione è “ascoltare bene [...] con la stessa semplice, utilitaristica ignoranza”, pur non essendo affatto impreparato, anzi, ...
Lo sforzo è evidentemente di metodo: egli si impone di vedere in modo nuovo ciò che la cultura ufficiale aveva trasmesso e nello stesso tempo comunica al lettore che, disponendo di tutte le tessere di quell’intrigato mosaico, come alla fine dell’inchiesta ha potuto disporne lui, chiunque può trarre le conclusioni alle quali egli è pervenuto.
L’approccio della ricerca è di tipo multidisciplinare: storia, geografia, geologia, geofisica, geopolitica, cartografia, archeologia, linguistica, ma anche arte, architettura, metallurgia. È un approccio cioè di tipo geografico, che parte da una sintesi ordinata di vari saperi, per proporre nuovi scenari di conoscenza.
Con rassicurazioni e con strattoni al sapere comune, avvolge il lettore in un racconto affabulatorio che genera dubbi, fascinazione, interesse; scompagina radicalmente una buona parte della storia e della geografica del passato.
Insomma, genera un “redondo fracasso” e ci invita a passare attraverso quelle probabili Colonne d’Ercole del Canale di Sicilia - ma aggiungerei forse del più angusto Canale di Pantelleria - dischiudendo il nostro sguardo alla visione della mitica terra di Atlante.

Ma qual è il contributo che le scienze geo-topo-cartografiche possono aggiungere a questo nuovo ed entusiasmante filone di ricerca?
Oltre agli aspetti geostorici già recuperati da Frau nella sua “indagine”, poche altre conferme potrebbero giungere forse dalle carte del passato, anche se va doverosamente precisato come l’esame di questi documenti sia pieno di difficoltà, di insidie e di incertezze.

Le testimonianze cartografiche più antiche, se si escludono i pochi frammenti di mappe pervenutici dal più lontano passato, partono proprio dalle carte medievali, che rappresentano talvolta delle epitomi di un sapere che traeva consistenza dalla tradizione greco-romana ed ellenistica, da vaghe notizie di carattere geografico derivanti perlopiù da racconti fantastici, dalla Bibbia, e dai nuovi contributi della memoria degli antichi Germani.
Perciò, mentre sulla scorta di Frau, si potrebbe, ad esempio, proporre un riesame dei contenuti informativi delle carte medievali, alla luce di una nuova considerazione del mito e della leggenda, contemporaneamente si dovrebbe però stigmatizzarne l’impiego ad historicam probationem, perché, è acquisizione non più recente, che il limite intrinseco del documento cartografico - in quanto prodotto di una volontà comunicativa specifica - è soprattutto quello di non essere depositario di verità oggettive, ma di una visione individuale o collettiva, nota o no allo stesso artefice.
Inoltre, sempre per tali carte sono da considerare: la nota deriva di tipo religioso da esse subita fino al XIV secolo, in un clima in cui ogni elaborazione è sottoposta ad interpretazioni di tipo anagogico; e la lunga tradizione teratologica, alla base delle composizioni iconografiche di numerosi cartografi medievali, che si ispirarono nelle loro rappresentazioni ad esseri immaginari, a bestiari terrificanti, sia, forse, per finalità apotropaiche sia per appagare quel gusto dell’immaginario che ancora oggi solletica le menti di tanti uomini.
Dalle varie mappae mundi medievali, grandi giacimenti di informazione geografica storica ancora non compiutamente esplorati, si potrebbero ad esempio esaminare in modo sistematico le iscrizioni toponomastiche, tenendo chiaramente presenti le enormi difficoltà derivanti dallo studio della toponomastica storica e da problemi legati all’uso di diversi sistemi linguistici e quindi di scrittura e di pronunzia, ma anche dall’uso di endonimi e di esonimi, diffusi fin dalle più remote epoche del passato.
Insomma anche questo campo, per quanto denso di fascino e ancora non interamente investigato, presenta difficoltà che potrebbero addirittura essere insormontabili: basta pensare per un attimo a quanto problematico sia l’argomento ancora ai giorni nostri, per esempio ai fini della trascrizione di nomi geografici da un sistema linguistico come il nostro ad un altro che non faccia uso dell’alfabeto latino, ma di quello cirillico o di caratteri ideografici. Problema quest’ultimo che, come noto, si cerca di risolvere con appositi sistemi di traslitterazione e trascrizione fonetica, sulla base di regole specifiche, che non datano però in epoche lontane, ma risalgono ad esempio al 1956, per la romanizzazione dall’arabo, al 1958 per il cinese, al 1962 per il greco moderno.
La questione, insomma, è così delicata, da aver indotto il Consiglio Economico e Sociale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, già dal 1959, ad occuparsi direttamente del problema della “normalizzazione toponomastica” a livello internazionale, attraverso la costituzione del Gruppo di Esperti delle Nazioni Unite sui Nomi Geografici, organismo ancora oggi attivo e strutturato in 22 divisioni geografico-linguistiche (l’Italia presiede e partecipa ai lavori della Divisione Romano-Ellenica). Immaginiamo, quindi, la complessità di trattare nomi geografici afferenti a lingue morte o radicalmente trasformate.
Ancora, spostando l’obiettivo dai documenti più antichi alle serie cartografiche diacroniche delle epoche successive, prodotte fino ai giorni nostri, si potrebbero ricavare utili elementi in merito alle variazioni topografiche subite dalle coste ed ai mutamenti morfologici dei fondali, che si sono registrati nel tempo, anche se solo di tempo storico recente si potrebbe, evidentemente, parlare.
Proprio in riferimento ai fondali del canale di Sicilia, tale tipo di indagine potrebbe ad esempio mirare allo studio della variabilità della condizione morfologica dei fondali, che appare particolarmente articolata e caratterizzata da una tale varietà batimetrica, con quote profonde e con affioramenti, banchi, secche e scogli, che non risulta affatto difficile immaginare i timori degli antichi naviganti nell’approssimarsi alla zona, specialmente poi se alle insidie dei fondali si aggiungeva anche qualche opportuno mostro mitologico.
Non solo, ma alle già ampie argomentazioni di Frau e a queste elementari osservazioni, si potrebbe ancora aggiungere un più attento esame della situazione di particolare instabilità dei fondali, in conseguenza di azioni vulcaniche submarine, delle quali è arrivata eco anche in tempi recenti.
Cito solo a mo’ d’esempio l’evento del 12 luglio 1831, quando, per effetto di un sommovimento dei fondali, dovuto ad eruzioni vulcaniche sottomarine, proprio tra la costa sud-occidentale della Sicilia e l’isola di Pantelleria, si affacciò alla superficie marina la celebre Isola Ferdinandea, denominata anche Isola di Graham ed Isola Giulia, la cui nascita determinò subito ampie contese internazionali, per l’affermazione dei diritti di proprietà e con non pochi strascichi diplomatici.
Nel dicembre dello stesso anno, Benedetto Marzolla (Brindisi 1801 - Napoli 1858), il celebre cartografo del Reale Officio Topografico di Napoli, ne tracciò i caratteri principali in una memoria a stampa.
Marzolla riferisce infatti di un vulcano sorto “tra Sciacca e Pantelleria, quasi nel mezzo dello spazio del mare che li divide, e propriamente ov’era un Banco coperto detto di Nerita”.
La memoria, corredata da sette tavole illustrative che riportano la planimetria e sei vedute dell’isola, oltre a restituirci le uniche immagini di questo prodigio della natura, che si levava dalla superficie del mare per soli 65 m, con un perimetro di circa 4 chilometri, descriveva con dovizia di particolari la natura dei suoli, la composizione delle acque del piccolo lago interno e concludeva preconizzandone la scomparsa ad opera dei marosi.
Così in proposito riferisce Marzolla: “Per poco che il mare sia agitato, le onde coprono la pianura di sabbia, ch’essendo bagnata divien dura, e comoda a camminarvi sopra. Però il mare colle sue agitazioni si porta via una parte di detta pianura, e finirà col distruggerla affatto. Restato così il monte esposto alla furia del mare direttamente, attesa la leggerezza e la profondità dei suoi componenti non potrà resistere all’urto de’ flutti, e probabilmente tra pochi mesi l’isola più non esisterà”.
E così accadde per questa misteriosa terra emersa, che, dopo aver fatto parlare di sé tutta l’Europa, ritornò nel fondo del Canale di Sicilia, da dove era venuta, beffeggiando, potenti ed ambasciate.
E lo scherzo non finì lì, perché 32 anni dopo, nel 1863, l’isola affiorò nuovamente per poco tempo, in seguito ad un ulteriore movimento tellurico.
Ciò che ancora oggi rimane di questo celebre, ma significativo, evento è testimoniato dall’esistenza del Banco di Graham, che presenta fondali variabili tra i 7 ed i 12 metri di profondità, ma anche dall’ulteriore presenza di ben altri banchi e secche.
Un’occhiata alla toponomastica del Canale di Sicilia ancora oggi restituisce uno scenario certamente prossimo a quello che ci proviene dalle memorie e dai racconti arcaici e che Frau ha cercato straordinariamente di farci notare.
Emblematici sono certamente nomi come Banco Terribile o Banco Avventura, oltre alle numerose presenze di secche, banchi e scogli di cui ho già fatto menzione.
Quanto alla prospettiva che con la tesi delle “prime” Colonne d’Ercole si apre sul Mediterraneo occidentale e quindi sulla mitica terra di Atlante, il contributo che dalle discipline geo-topo-cartografiche può venire passa principalmente attraverso la realizzazione di uno specifico sistema informativo geografico storico, che consenta non solo lo studio delle relazioni tra il modello digitale del terreno e la distribuzione plano-altimetrica dell’insieme dei vari manufatti nuragici a oggi noti e dei reperti di cui si conoscono le originarie dislocazioni spaziali, ma, che permetta soprattutto la simulazione di vari scenari, caratterizzati da eventi sismici e da moti ondosi anomali ad essi collegati, di differenti entità.
Cioè che dia la possibilità di ricostruire gli effetti di eventuali, antichi tzunami sull’isola e sugli insediamenti nuragici noti, al fine di poterne studiare le conseguenze dal punto di vista delle variazioni morfologiche dell’isola e di verificarne gli effetti sulle costruzioni, in rapporto alle testimonianze di oggi.
In definitiva, la speranza che oramai in tanti nutriamo su questi argomenti, che non possono più essere ritenuti solo una brillante intuizione, è che si compia uno sforzo comune da parte di tutti i settori della ricerca scientifica interessati: la posta in gioco è veramente alta. Alta deve essere l’attenzione della scienza!

Intervento di Paolo Mauri
(responsabile delle pagine culturali di “Repubblica”):

Solo un breve saluto perché sono stato tra i primi a leggere il libro di Sergio Frau in quanto responsabile delle pagine culturali di Repubblica, dove di questo libro sono apparse numerose anticipazioni....
Ho avuto le mie iniziali perplessità e ho cercato, leggendolo, di convincermi della bontà di queste ipotesi. Ma voglio fare una piccola digressione per dire che oggi è facile dire che un “dilettante” poi in fondo si insinua nel mondo dei competenti, degli scienziati e porta un proprio contributo. La vita del “dilettante” non è per niente semplice. Non è semplice perché deve forgiarsi gli strumenti con i quali va avanti e procede nella ricerca, deve vincere una quantità infinita di dubbi che lo colgono nel corso proprio dell’indagine, deve continuamente sottoporre la propria fatica alla certificazione di diversi esperti che possano dire: sì, effettivamente, non hai intrapreso una strada inutile o completamente sbagliata.
E questo ha fatto Frau, arrivando al punto di pubblicare il libro da sé. Voi vedete che questo libro “le Colonne d’Ercole, un’inchiesta” è edito da una sigla non nota, non tra quelle dei maggiori editori italiani ai quali pure avrebbe avuto accesso facilmente. Perché?
Perché ha voluto prendere su di sé la responsabilità della pubblicazione di questa inchiesta e non ha voluto nemmeno disperdere il piccolo o grande patrimonio che aveva accumulato, dovendo sottostare alle Colonne d’Ercole di una decisione editoriale altrui.
Quando Sergio è venuto da me con questo malloppo di fogli, notevole, cospicuo come più volte si è rilevato oggi, e ho cominciato a leggere, poi ne abbiamo parlato e poi ne abbiamo riparlato a lungo, la cosa importante che mi convinceva era lo stato di ipotesi, di ipotesi che, però, più la si provava - le ipotesi vanno ovviamente confrontate con i dati che man mano si acquisiscono - più la si contfrontava con questi dati e più dava delle risposte affascinanti.
Una soprattutto mi convinceva: il fatto che le Colonne d’Ercole messe a Gibilterra condannavano gli antichi a un pressapochismo assoluto. Si diceva che i geografi antichi, che gli storici antichi avevano commesso un sacco di errori perché i conti non tornavano, e quindi mi era sempre sembrata un po’ liquidatoria questa tesi per cui personaggi - altrimenti assai illustri e sui quali si poteva contare per tutta una serie di altre informazioni storiche e notizie - venissero, per quel che riguardava la geografia, liquidati in un modo così netto, proprio perché, non tornando i conti, dico certamente dovevano aver sbagliato loro.
E se avessimo, invece, sbagliato noi?
La tesi di Frau era affascinante: perché tutto sommato con un piccolo spostamento, non uno spostamento enorme, faceva ritornare tutti quanti i conti per bene. E quindi gli Antichi non si erano sbagliati per nulla: semplicemente le Colonne d’Ercole avevano avuto nel tempo postazioni diverse e raccontavano, quindi, storie diverse.
Che cosa ci diceva intanto il libro di Frau, che comunemente molti di noi si affidano alle cose più divulgate: certo tutti noi abbiamo in mente Dante per quel che riguarda appunto le Colonne d’Ercole medievali e lì le lasciamo, lì sono nella nostra testa, e ovviamente non possiamo pensare, o non ci pensiamo comunemente, che Dante si sia sbagliato; ma Dante non si sbagliava era semplicemente che Dante si riferiva a una tradizione a lui più vicina e che quindi poneva quelle colonne dove le poneva la tradizione medievale.
Il periodo preso in esame da Frau è notevomente più antico e attraversa poi appunto tutta una serie di riletture storiche, mitologiche e geografiche. Certo il suo guaio, guaio tra virgolette, è stato quello di inciampare in Atlantide. Inciampare in Atlantide è un guaio perché immediatamente Atlantide evoca quello che Frau ha detto più volte certo evoca gli ufologi, i cercatori di terre perdute, Indiana Jones e quant’altro, il fumetto viene dall’antichità... E non voleva - io me lo ricordo benissimo... - non poniamo assolutamente l’accento su Atlantide perché altrimenti sembriamo immediatamente anche noi dei cacciatori di tesori sommersi e, quindi, di cose che sposterebbero l’attenzione del lettore dall’unico dato importante da porre all’attenzione, cioè proprio quello di una nuova postazione, di una nuova situazione delle Colonne d’Ercole che permettesse di rileggere tutta una serie di particolari di questa antichissima storia con una diversa, come si dice, cognizione di causa.
Abbiamo affrontato appunto anche noi le perplessità di alcuni, ma abbiamo scelto di dare corso all’anticipazione su un giornale grande come Repubblica, che poi quando fa sua una tesi o un’ipotesi deve essere in grado anche un po’ di sostenerla. Naturalmente qui il sostegno era semplicemente quello offerto poi dall’inchiesta di Frau: non è detto poi che i metodi giornalistici siano così lontani dai metodi di chi studia per mestiere, perché la ricerca dei documenti, l’analisi delle fonti, l’andare in fondo alle cose, il far parlare i testimoni, sono tutte cose che fanno parte anche del mestiere di chi fa il giornalista.
È un po’ più difficile che a un giornalista venga in mente di far parlare i testi antichi o di far parlare appunto delle antiche carte geografiche, è più semplice e normalmente più abituale che il giornalista si rivolga a dei viventi e che limiti magari le sue inchieste a questioni inerenti il contemporaneo. Però, per chi si muove nell’ambito di una pagina culturale è anche normale che si parli di cose antiche: di recente abbiamo avuto un interessante scambio di opinioni tra Settis e Canfora a proposito di un celebre papiro, il Papiro di Artemidoro, “chissà se è vero?”, dice Canfora pensando che addirittura sia stato falsificato nell’Ottocento, mentre secondo Settis è vero e le prove verranno fuori dall’edizione critica. Certo un giornale non può andare a fondo di questioni che poi sono di pertinenza inevitabilmente degli specialisti; ma quello che voleva fare Frau era esattamente questo: far presente in maniera circostanziata, come ha fatto, un’ipotesi che in qualche modo era rivoluzionaria per quello che riguardava la lettura di una certa una porzione del mondo antico e che avrebbe permesso, non tanto nelle sue mani, quanto ormai nelle mani di tutti gli studiosi, di tutti gli specialisti che avessere avuto voglia di prenderne atto e quindi di dare il loro contributo poi nel succedersi degli studi e delle cose. Cosa che in parte è avvenuta perché il fatto che, a distanza di quattro anni, ancora noi si riparli di questa inchiesta in una sede prestigiosa come l’Accademia dei Lincei ha dato ragione indubbiamente a Frau e gli consente di superare anche certe difficoltà e certi inciampi che nel corso del tempo si sono manifestati; perché non è stata rosa e fiori la vita di questo libro, ci sono state persino delle grottesche raccolte di firme, come se vivessimo in un tempo di moderna inquisizione, per cui se il libro contiene delle ipotesi sbagliate stroncatelo, scrivete che non vale nulla, dite che è completamente privo di fondamento, che è dilettantesco, eccetera... Ma girare a raccogliere delle firme tra studiosi, funzionari di sovrintendenze - quasi per vietare che ci si occupi di certe cose - è francamente grottesco e dà una strana impressione su come poi vengono concepite le ricerche in questo paese. Dico, poi, proprio la settorialità, l’incapacità di accogliere - con gioia direi, se è il caso di farlo, ovviamente - perché abbiamo sempre detto che il libro di Frau è forse il luogo più pieno di punti interrogativi che io conosca nell’editoria contemporanea, perché è un’ipotesi e questa ipotesi pone tutta una serie di domande.
In parte a queste domande Frau cerca di rispondere, in parte chiede a chi ha più competenza e ha più strumenti di seguitare la ricerca, proprio perché si tratta di una ricerca che ha bisogno dell’aiuto di molti e, quindi, anche di un suffragio di diverse discipline, di arrivare a scoprire una cosa in più.
Bene: non è stata facile quindi la vita del “dilettante” Frau, che ormai però possiamo dire è stato promosso, direi a pieni voti, a studioso, per lo meno a “studioso dilettante” se vogliamo, ma comunque non incapace di arrivare a dei risultati concreti, come ha saputo dimostrare. E questo, se ha dato un impulso alle ricerche in questo particolare campo, ci riempie di soddisfazione. Grazie

Intervento del professor Andrea Carandini
(archeologo dell’età classica, docente di archeologia all’Università “La Sapienza” di Roma):

Per riprendere il discorso di Paolo Mauri, la vita è difficile per il dilettante, ma può esserlo anche per il professionista: perché basta naturalmente non procedere per preconcetti e aprire strade nuove che, naturalmente, tutte le schiere si serrano, si chiudono e la vita non è facile.
Dunque Godart vi ha illustrato la situazione dal punto di vista del Mediterraneo orientale, io la vorrei osservare dal punto di vista del Mediterraneo occidentale, dove questa frontiera bisogna anche capirla un pochino...
Il Mediterraneo è un bacino, una specie di anello, quindi la frontiera ha evidentemente una linea, ma molto forti sono i punti che delimitano questa linea. Questi punti, uno si trova a nord-ovest e si chiama le “Isole dei Beati”, e questo è un argomento che ha riguardato i miei studi: è il mondo latino, il mondo etrusco, è il mondo delle isole divine; e poi c’è l’altro capo, che è appunto il punto nodale del fronte a sud-ovest, di cui io non mi ero e non mi sono mai occupato, che riguarda il mondo punico e che riguarda oggi appunto, grazie a Frau lo sappiamo, le prime Colonne d’Ercole.
Quindi, quando Frau è venuto da me a chiedermi informazioni sulle Colonne d’Ercole, io mi son trovato in un certo imbarazzo. Primo: per la povertà della letteratura, in effetti; ma anche, poi, per la mia ignoranza perché io in quel momento mi stavo occupando delle origini di Roma, mi occupavo del Lazio primitivo e quindi, francamente, non sapevo molto che cosa dirgli: era un problema diciamo che non mi ero posto, perché capita anche ai professori universitari di innamorarsi e io mi ero innamorato di un’altra parte del mondo antico.
Ora la differenza tra questi due punti è che il primo è vago, le “Isole dei Beati”, cioè le isole degli dei; l’altro è invece, nei termini di Frau, molto preciso sta tra la Tunisia e la Sicilia e quindi sta fra due colonne, diciamo no? E quindi è un punto nevralgico, appunto di bassi fondali, quindi è delimitato diciamo in senso orizzontale ma anche in senso verticale per la presenza di queste grosse entità. Questa realtà è secondo me il confine a partire dalla metà dell’VIII secolo, cioè a partire da quando i Greci colonizzano l’Occidente tra la Sicilia e la Campania.
Ma, naturalmente, questo sapere era non solo dei Greci d’Occidente ma tornava indietro in Grecia: tornava per esempio, con gli Eubei che lo portavano nell’isola di Eubea che è un’isola della Grecia. E lì è successo qualche cosa di veramente straordinario: verso la fine dell’VIII secolo Esiodo si trova in Eubea, probabilmente ai funerali di Anfidamante, e lì ha contatti con questi grandi signori navigatori euboici e viene a sapere delle cose del polo nord-est di questa frontiera - lui non tratta l’altro polo, il polo sud-ovest - e ingloba nella Teogonia in sintesi questo sapere. Naturalmente sono poi arrivati gli storici, i filologi i quali invece di ricostruire la storia la riscrivono da capo a modo loro pensando di essere più furbi delle fonti antiche e hanno detto: “Questa parte della Teogonia è un’interpolazione più tarda della fine del VII o del VI secolo”. Cosa che non ha nessun senso perché, alla luce degli studi più attuali, quello che dice Esiodo sembra perfettamente isomorfo alla realtà mitica dei primitivi latini, quindi ben più antica addirittura della metà dell’VIII secolo. Quello che dice Esiodo è questo: che un certo signor Agrios - di cui Nonno di Panopoli che è un autore del V secolo d.C. ci svela la reale entità, cioè Fauno, il nume dei Latini Fauno - e suo fratello Latino regnano sulle “Isole dei Beati”. Quindi è interessante, non c’è nessuna notazione storica in tutto ciò, perché questo è un mito che probabilmente risale alla fine dell’Età del Bronzo e che viene registrato dai Greci perché è un mito vivente dei Latini, che riconoscevano nelle loro origini queste divinità - Pico, Fauno e Latino - che erano anche stati i primi re del Lazio.
Ora, la cosa interessante è che questi due fratelli sono figli di due personaggi interessanti, di un certo interesse. Il padre è Ulisse, quindi naturalmente è un eroe greco, il che ci fa pensare che questo eroe greco ha sostituito, già in questo momento, un eroe indigeno, che è appunto Pico che noi sappiamo essere il padre di questi due altri signori; e poi di una signora chiamata similmente a Agrios, Agrotera, questa signora selvaggia, Circe, che è figlia del Sole, del Sole Tramontante, quindi è già una Circe situata in Occidente: questo è molto interessante, è molto importante.
Questo naturalmente prova che la mitologia dei Latini non è un’invenzione tarda, come si è pensato, ma è, invece, qualcosa di estremamente antico e autentico, registrato fin dalla fine dell’VIII secolo da Esiodo. Ora si dice anche un’altra cosa: da dove regnano questi signori su questo mondo così vago che viene chiamato le “Isole dei Beati”? Regnano nella parte interna di queste isole, in un recesso, in una parte interna. A me questo ha fatto pensare naturalmente al grande centro religioso dei Latini che è Alba Longa, la quale in effetti trovandosi ai piedi del monte Albano, l’attuale monte Cavo, si trova nell’interno rispetto alla costa del Lazio e alle isole naturalmente del Tirreno. Quindi siamo ancora in una fase albana, quindi Alba Longa - la tradizione ne pone la distruzione, e non vedo perché non ci dobbiamo credere, intorno alla metà del VII secolo - quindi siamo grosso modo in un sapere che va tra la seconda metà dell’VIII e la prima metà del VII secolo.
Ora questa visione di questo limite evidentemente getta luce anche sull’altro limite, che evidentemente non può trovarsi così avanzato come Gibilterra, deve trovarsi quindi grosso modo su quella medesima frontiera; ora il mondo greco di Occidente è una specie di triangolo, diciamo, di cui il lato più lungo è la Cortina di ferro di cui si è parlato, che va appunto dall’isola di Pantelleria grosso modo all’isola d’Elba. Quindi la realtà di questo altro fronte a me pare che, oltre a tutte le argomentazioni di Frau, crea una specie di humus, diciamo, di plausibilità di verosimiglianza per le ipotesi di Frau, che torna perfettamente, mentre naturalmente altre frontiere, o più arretrate o più avanzate, non tornerebbero assolutamente.
C’è una frontiera più antica - io non so se già si parlava di Colonne d’Ercole, probabilmente no, ma era una frontiera più antica - che è una frontiera più arretrata che va diciamo dalla Cirenaica, dove poi sorgerà Cirene, fino diciamo all’isola di Ulisse a Itaca, e Ulisse è proprio un mondo direi anteriore alle Colonne d’Ercole stabilite da Frau perché siamo prima della colonizzazione greca quando ci sono questi signori che esplorano, che hanno queste avventure terrorizzanti che io collocherei piuttosto nella prima metà dell’VIII secolo, quindi tra l’800 e il 750, in cui ci sono queste prime esplorazioni protocoloniali, ma ancora non si fondano delle colonie, e questa realtà di Ulisse che va nell’isola dei Feaci, il cui re gli regala, lo aiuta a tornare nella sua isola, e gli regala dei tripodi che poi lui dona alle ninfe di Itaca, trova un perfetto corrispettivo archeologico, anche dal punto di vista cronologico - siamo appunto tra la fine del IX e la prima metà dell’VIII secolo - in tripodi trovati in una grotta sul lato occidentale dell’isola di Ulisse, che evidentemente sono stati posti sul luogo, avendo probabilmente in mente il mito omerico, signori che questi viaggi li facevano naturalmente per davvero.
Quindi tutto ciò mostra che esiste una frontiera più arretrata. Poi c’è questa frontiera e poi naturalmente la frontiera avanzerà nell’anello, da una parte fino a Ampurias e, poi, dall’altra, forse un po’ più tardi, fino alle Colonne d’Ercole (di Gibilterra): e quindi abbiamo almeno questi tre momenti rispetto a quel mondo più chiusamente egeo di cui ci ha parlato così suggestivamente Godart.
Ora il problema è che, in concomitanza di questa linea che va dall’Elba diciamo a Pantelleria, ci sono delle enormi isole, ci sono delle grandi isole di cui una è la Corsica e l’altra è la Sardegna. E qui s’innesta la seconda ipotesi di Frau, sulla quale io ho ancora minori competenze naturalmente dal punto di vista professionale. Però più vado avanti, più ascolto le argomentazioni, più mi rendo conto prima di tutto della felicità del fatto che esistono ipotesi in concorrenza, perché dove non c’ è concorrenza naturalmente non solo non c’è mercato ma non c’è nemmeno mercato di idee... E direi che a questo punto, rispetto all’idea tradizionale di Santorini che ancora è sostenuta da Godart, devo dire che effettivamente se quest’isola deve essere oltre le Colonne d’Ercole, mi sembra avere più plausibilità - posto che sia un’isola identificabile perché non tutti i miti hanno corrispettivi reali, molti miti li hanno - se c’è un corrispettivo, certo la Sardegna comincia a essere una candidata importante, e per questo una soprintendenza intelligente, uno stato intelligente dovrebbe fornire mezzi per testare questa ipotesi. Perché guardate quella di Frau è un’ipotesi, ma le altre, ma le altre, le nostre cosa sono? Sono ipotesi anch’esse, di fatti provati nell’antichità ce ne sono pochissimi. Noi abbiamo, e poi questa è anche la teoria della scienza ormai, la scienza è una scienza sempre probabilistica: un’ipotesi ha più o meno probabilità, ma non esiste una verità assoluta, certa e dimostrata, questo ormai...
È caduta la meccanica di Newton: possono cadere anche le ipotesi archeologiche, naturalmente. Comunque sul mito - come possibile elemento di radice di verità storica - credo di aver portato il mio contributo sulle origini di Roma e vorrei dirvi che, da ieri, è in libreria il primo volume della collezione Valla che raccoglie tutte le fonti sulla leggenda di Remo e di Romolo - il primo volume arriva fino alla fondazione compresa - che viene da noi studiata appunto morfologicamente come ha fatto Propp per le sue favole. E anche lì, ha ragione Frau, anche la leggenda di Roma è un’immane stratificazione che conosce molti strati di cui però il più antico, il nocciolo più antico, risale a mio avviso senz’altro alla metà o terzo/quarto dell’VIII secolo, perché l’archeologia ha ormai dato altrettanti argomenti - se non di più - rispetto a quelli della talassocrazia cretese.
Quindi io credo che le “puzze sotto il naso” gli stiff upper lips, come dicono gli inglesi, sono da bandire, le serrate - a Roma ci fu la serrata del patriziato nel V secolo a.C. - ma le serrate degli studiosi, gli elenchi di proscrizione sono realtà completamente grottesche... E che Frau è stato uno straordinario rompi...ghiaccio, naturalmente... (brusio in sala. Ndr).
Forse anche un poco rompiscatole, ma vedo più il rompighiaccio del rompiscatole... Naturalmente rompendo il ghiaccio può anche farsi del male: ma può anche aprire nuove strade della ricerca ed io, finora, vedo piuttosto questa seconda soluzione, positiva e benefica, che non la prima per cui lo ringrazio e mi compiaccio del suo lavoro.

Intervento del professor Azedine Beschaouch
(archeologo e storico, accademico di Francia, già consigliere scientifico del Settore Cultura Unesco, già Capo della Sezione Patrimonio Mondiale):

Signor presidente, cari colleghi, signore e signori anzitutto vorrei chiedere l’amicizia e il gentile permesso di parlare in un italiano quasi inelegante. Ho avuto a Parigi l’onore non solo di attendere e di essere il presidente del convegno, grazie all’Unesco e soprattutto all’egida del professor Mounir Bouchenaki, già sottodirettore generale della cultura nell’Unesco e adesso direttore generale dell’Iccrom a Roma. Grazie..
E, oggi, vorrei di nuovo salutare il mio amico Sergio perché mi ha fatto un vero piacere: di seguire questa avventura che è una vera ricerca. E, secondo me, il merito di Sergio Frau è che lui è: l’uomo che ha osato. Lui ha osato rivisitare la storia, rivisitare un mondo antico che abbiamo supposto come un mondo conosciuto, che pensavamo non avesse bisogno di far niente di nuovo perché tutte le cose sono conosciute... E lui ha osato e lui ha proposto l’ubicazione delle Colonne dell’antichità, ha concepito un dubbio e un dubbio metodologico, e ha considerato che è incerta la localizzazione proposta già per l’antichità e incerta la validità di questa localizzazione.
Questo veramente è un merito perché per tutti la cosa già conosciuta e non abbiamo niente, come ho detto, da fare, perché i testi sono chiari, dicono che i testi sono chiari, e che l’archeologia in quel tempo anche ha dato l’impressione che la conferma era per questi testi e non abbiamo da cambiare niente.
In secondo luogo Sergio Frau ha proceduto non solo alla rilettura di queste fonti letterarie, storiche, ma ha fatto una vera revisione. E quando ho letto il libro, io sono sicuro che qualcuno che realmente legge questo libro non può dire che è un libro di un “dilettante”: altro che problema giornalista o storico... Il problema vero è che lui ha dato tutte le fonti e lo posso dire, questa è la mia testimonianza personale. Quando, in accordo col signor Bouchenaki, all’Unesco dobbiamo... non è facile di convincere autorità dentro l’Unesco in qual tempo di accogliere un libro e qualcuno che non è dentro, diciamo, il mondo accademico; non era facile e voglio ringraziare di nuovo il professor Bouchenaki perché abbiamo avuto questo piacere nel presentare il libro dentro l’Unesco nell’aprile 2005. E, dunque, si può dire che leggendo il libro ho avuto non solo l’impressione una sicurezza che tutte le fonti sono citate.
Possiamo essere d’accordo - o possiamo dire che qualche conclusione non sono per noi conclusioni certe - ma la certezza è che abbiamo tutte le fonti, tutti i testi e che lui ha fatto un lavoro realmente di storico. E la conclusione lui presenta un riposizionamento delle nostre conoscenze e la novità - veramente una novità! - è che abbiamo testi e un esame di questi testi con la realtà archeologica. E, come archeologo della Tunisia, cioè essenzialmente di Cartagine, posso dire e mi permette il professore Bouchenaki per dire che lui anche come archeologo algerino e lui ha partecipato più di me a lavori soprattutto questi famosi lavori, primi lavori nel Mediterraneo occidentale del professor Sabatino Moscati, e una squadra italo-algerina ha fatto, e il professor Bouchenaki ha partecipato, per fare lavori per la prima volta di ricerche precise su la presenza fenico-punica: posso dire che per noi del Maghreb, soprattutto della Tunisia e dell’Algeria, che la presenza dei Fenici prima di Cartagine, prima dell’espansione punica, è sicura e importantissima.
E sappiamo adesso - perché gli scavi condotti a Cartagine sotto il patrocinio dell’Unesco vent’anni fa, venticinque anni fa, e il mio amico Carandini ha partecipato a questi lavori a Cartagine con una squadra italiana, una missione molto brava... - abbiamo adesso una sicurezza, che la data tradizionale della fondazione di Cartagine 816 a.C. adesso non è solo una data tradizionale, una data della cronaca: è una data archeologica! Infatti è la missione tedesca che è arrivata quasi all’800-810 perché ormai la ceramica ha fornito - questo è il contributo della ceramica - la possibilità di dire che la data è una data certa, e possiamo dire che la fondazione di Cartagine è la prova che i Fenici ci sono già, nel IX secolo a.C., nella parte occidentale del Mediterraneo. Vuol dire, possiamo dire che la parte occidentale del Mediterraneo prima dell’espansione, prima dei primi passi degli Egei, dei primi passi dei Greci, è già una zona della civiltà fenicia.
E dunque la proposta di ubicare le Colonne tra la Sicilia e la Tunisia per me è una cosa ovviamente storica. Storia - come ha detto il professor Carandini - non è la storia come la verità di Newton, ma la storia per noi storici e possiamo dire che veramente adesso possiamo leggere la storia meglio con questa barriera, come diceva nel 1978 l’accademico Sabatino Moscati che l’Occidente del Mediterraneo era la zona della civiltà dei Fenici.
E, dunque, la proposta di metter le Colonne tra la Sicilia, l’Italia, e la Tunisia di oggi: non possiamo leggere altrimenti la storia del Mediterraneo!
E dunque per me come storico, non come tifoso - perché adesso lui, Frau, con suo libro ha tifosi nella Tunisia che dicono adesso noi abbiamo un gran libro che propone che le Colonne d’Ercole erano una parte della Tunisia e una parte della Sicilia - [dalla sala] Ma non fate guerra al Marocco! - ... no no aspettodi avere tifosi anche dell’Algeria, e così una parte del Maghreb...
E vorrei fare, prima del terzo punto, fare una notazione.
Mi piace tanto di vedere: in meno di due anni siamo passati dal titolo del convegno all’Unesco “Dove erano le Colonne d’Ercole” e oggi all’Accademia Nazionale dei Lincei “Cosa c’era dietro le prime Colonne d’Ercole?”, vuol dire che già un passo importante, che siamo passati da “dove erano” a qualcosa di importantissimo: “prime” Colonne tra virgolette... Ma prime Colonne vuol dire che siamo in progresso e per questo: complimenti! - (dice Vesentini: “Voglio fare un’indiscrezione, il punto di domanda l’ha voluto aggiungere Frau”) -
Vuol dire che per Frau adesso il problema non è - come meno di due anni fa - “dove erano?”.
Il problema adesso è dove erano le prime Colonne d’Ercole -[dice Frau] “si fanno traslochi: ma piano, piano” - ma come archeologo io, e soprattutto dopo aver sentito il professor Godart e il professor Carandini, io sono d’accordo, d’accordissimo con questo punto di vista.
Finalmente dobbiamo proseguire su questa strada le Colonne, non di lasciar perdere. Come l’amico Andrea [Carandini] ha detto, dobbiamo aspettare: speriamo che i nostri colleghi nella Sardegna possano avere la possibilità finanziaria e cominciare le ricerche. Ma, questo è un altro problema, un’altra cosa, di non mettere allo stesso livello, se no la polemica sull’Atlantide sarà una polemica sulle Colonne (?)... questo a livello dell’amicizia tra noi, caro Sergio, di evitare questo.. come si dice piège in italiano... esatto questo... se no sarà.. ah.. e allora passiamo dall’uno all’altro... no!
Abbiamo una rilettura, una revisione, abbiamno questo esame tra testi, fonti e l’archeologia possiamo dire che adesso sono in progresso, di non dimenticare questo problema, ma di non fare questo problema, di non mettere allo stesso livello [Sergio Frau: però, professore, Prometeo al Caucaso e l’Isola d’Atlante, non sono io ad averli messi lì, quindi Atlantide non è roba mia; chi mi ci trascina lo fa in modo pretestuoso: è un po’ come la polizia di Los Angeles quando la la matta...]... e dunque devo concludere che un altro, al modo metaforico di dire che questo libro, queste proposte hanno finalmente un altro merito, e un ruolo di aperitivo.
Possiamo dire che ora dall’ipotesi siamo passati a qualcosa più importante, non la verità storica, ma una posizione storica con una base più importante. Complimenti di nuovo perché questo realmente è un passo importante

Intervento del professor Mounir Bouchenaki
(archeologo e antichista, direttore generale dell’ICCROM, già vice-direttore per la Cultura dell’Unesco):

Grazie professore, buonasera a tutti...
Io sono veramente onorato di essere in questo luogo prestigioso. Come il mio amico Azedine Beschaouch, il mio italiano non è ancora così pulito, ma vorrei portare qui la testimonianza che quando ho ricevuto per la prima volta il “collega” Sergio Frau a Parigi, ero in quel momento all’Unesco, ho immediatamente avuto questa posizione: “Vede, Frau, questa sua è un’ipotesi: io penso che lei ha il diritto di presentare questa ipotesi”, perché ho visto che il lavoro che aveva fatto era fondato - come è stato già detto - su una lettura e un’analisi molto precisa delle fonti e dei documenti degli storici e dell’antichità.
Anche io ho avuto il piacere e ho potuto lavorare con il professor Andrea Carandini, abbiamo scavato una villa romana in Algeria. Io vengo dall’Algeria e in Algeria non abbiamo le Colonne d’Ercole, così non ho nessuna posizione di principio su questo tema, ma ho pensato: perché una persona che ha un’educazione, una conoscenza, un interesse alla letteratura antica - ai testi antichi - perché non può dare far conoscere la sua ipotesi?
E allora l’abbiamo aiutato - lo dico sinceramente - all’Unesco a presentare il suo lavoro al pubblico di Parigi, agli studiosi di Parigi - ma è venuto anche il professor Carandini, il professor Godart e altri studiosi - per ascoltare prima questa ipotesi e discutere con lui quali sono le debolezze e quali sono le parti forti del suo contributo, e questo veramente, questo che ha dato questa visibilità al lavoro di Sergio Frau all’Unesco. E abbiamo visto che i nostri colleghi all’Università di Parigi erano molto interessati, come è stato interessato il signor Azedine Beschaouch, che era prima il direttore generale delle antichità di Tunisia e che ha pubblicato tanti libri e articoli sull’archeologia tunisina.
Noi siamo, come maghrebini, siamo molto interessati di vedere come in questo campo i nostri colleghi in Italia fanno avanzare la scienza, questo per me io considero che è un passo per aprire delle vie di ricerche per le generazioni di archeologi italiani ma anche stranieri.
Ho avuto anche il piacere, ho avuto la fortuna posso dire, negli anni settanta, di essere parte del gruppo degli archeologi che hanno lavorato sotto la supervisione del professor Sabatino Moscati. E poi il professor Sabatino Moscati è venuto in Algeria, perché lui voleva sapere sul terreno come è stata fatta questa espansione fenicia ¬- come erano scritti i suoi libri e articoli - e come in Algeria finalmente non abbiamo ancora avuto la stessa fortuna che abbiamo trovata per la ricerca archeologica in Tunisia, dove il professor Friederich Rakob dell’istituto archeologico germanico di Roma ha trovato nel suo scavo nel sito di Cartagine. Allora abbiamo cominciato uno scavo: io ho lavorato con il professor Friederich Rakob su due siti in Algeria, uno presso la città di Costantina, dove si trova la tomba del cosiddetto Massinissa, e poi un altro sito verso il Marocco, presso la frontiera del Marocco, dove era la capitale di Sphax e abbiamo scavato anche il mausoleo di Sphax, ma non siamo andati più del V secolo a.C..
Allora, Andrea (Carandini), lei ha totalmente ragione: questa ipotesi dovrebbe essere ancora discussa, presentata agli studiosi e dovrebbe fare parte dei temi di ricerca sia in Italia sia in altri paesi particolarmente delle due sponde del Mediterraneo. Grazie