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Il Mare del Sociologo - Le Frontiere del Mediterraneo: un caso delle origini

lunedì 24 gennaio 2005

L’invito a commentare un libro come le Colonne d’Ercole (1) costituisce per un sociologo una sfida estremamente pericolosa.
Il canto delle sirene dell’Antico, le suggestioni che dal passato si levano verso il presente, hanno animato fantasie sociologiche persistenti, fascinazioni potenti, ma bisognerebbe avere almeno la tempra di un Ulisse-Weber per non soccombere, per non lasciarsene soggiogare, mantenendo fissi i contorni del tempo e dello spazio, e non trovarsi tragicamente déplacé, privi di strumenti di navigazione concettuale adeguati, fuori luogo almeno quanto le Colonne a Cadice, sole solette di fronte agli isolotti che fronteggiano la costa. Nel caso specifico, tuttavia, ci sono almeno due buoni motivi per lasciarsi tentare e strapparsi senza indugi i tappi di cera della competenza disciplinare, usuale dotazione dei marinai-sociologi semplici, come chi scrive: il primo è che il fascino che emana da queste pagine è davvero troppo potente per non lasciarsene suggestionare; il secondo è che il libro di Frau rompe così coraggiosamente con ogni tradizione ermeneutica consolidata e, di conseguenza, con ogni circolo disciplinare, da autorizzare consapevolmente altre rotture, ivi compresa quella di non doversi rigidamente attenere - nel commentarlo - al suo contenuto, per prenderne invece l’abbrivio proprio a partire dalle suggestioni che da esso soffiano impetuose. Mi sembra di ricordare soltanto un altro caso con una portata simile. Nel 1987 Martin Bernal dava alle stampe a Londra Atena Nera2, un libro destinato a scuotere profondamente la storiografia del mondo antico e non solo. Vi si narrava una strana storia, di dèi e coloni giunti in Grecia da Oriente e da Sud, di un’Atena nata in Egitto e tutt’altro che chiara di pelle e, soprattutto, di ciò che i Greci stessi solevano raccontarsi a questo proposito. Dietro l’erudizione maestosa, l’arditezza delle comparazioni glottologiche e l’intrico fantasmagorico delle mappe storiche, quel libro nutriva un’ambizione più semplice: era al presente che intendeva parlare. Rivolgendo strategicamente le fonti contro la tradizione consolidata del loro utilizzo, mostrava non tanto la penetrante presenza di Peleset ed Egizi nella fase aurorale della Grecia (tesi non nuovissima già all’epoca), quanto l’assoluta, tranquilla incorporazione di queste ascendenze nelle rappresentazioni degli Antichi, per nulla imbarazzati da quella parentela diretta con popolazioni Semite ed Africane. Seguendo la strada già tracciata da Nietzsche, Bernal smontava pezzo dopo pezzo il mito della fondazione ariana della civiltà classica: la mitica Ursprung ariana si disvelava così per ciò che più modestamente era in realtà, mera Erfindung, invenzione assai più recente necessitata dall’immaginario europeo, coloniale prima, nazista poi. Sotto questa spinta possente, agli Antichi era stata tolta la parola per affermare senza esitazioni un’altra narrazione, quella delle genti di lingua indo-europea giunte nell’Ellade provenendo da Nord. L’antica nozione - ben presente agli storiografi greci - di una Grecia a cultura mista, fecondata da “razze inferiori”, doveva scomparire come “anti-scientifica” al pari delle antiche credenze intorno a sirene e centauri; fino, almeno, al momento in cui qualcuno non avesse compiuto il semplice gesto di restituire la parola agli “ingenui” Antichi... Pur con esiti a tratti profondamente differenti (Bernal alimentava la tesi della sostanziale “unità” del Mediterraneo nella sua componente orientale ed occidentale, Frau disegna una trama geopolitica complessa, entro la quale unità e fratture si giocano su piani multipli), la rottura che Atena Nera produsse, assomiglia da vicino all’effetto dirompente che l’apparizione de “le Colonne d’Ercole” sembra destinata a generare (e in parte ha già prodotto) nell’ordinato mondo della storiografia accademica. Vi sono profonde analogie nello spirito sotterraneo che percorre i due libri, nel coraggio di porsi come un sasso scagliato al cuore della tradizione (postura anch’essa - del resto - molto mediterranea: dalla fionda di Davide agli shabab palestinesi, il Mediterraneo si è spesso declinato come resistenza asimmetrica all’autorità, che questa si materializzi nella forma dei tanks o in quella dei saperi accademici), nello svolgere senza esitazioni gomitoli che si dipanano fra epoche storiche differenti e che la storiografia ufficiale si preoccupa di tenere costantemente ben separate. Vi è, nei due libri, la stessa, ostinata volontà di ricondurre la parola degli Antichi fuori dai recinti narrativi cui i Moderni l’hanno costretta. Ciononostante, Bernal conduceva un gioco un po’ diverso, al fondo meno rischioso e giocato su un terreno più vicino a casa sua. Era un sinologo - a dimostrazione, certo, che soltanto le eterodossie e le eterogenesi disciplinari possono produrre discontinuità significative nei saperi - ma era pur sempre un accademico e non se ne dimenticò mai, per tutta la durata del suo ponderoso volume, corredato da glosse ed apparati bibliografici ingenti, scritto secondo uno stile mai dimentico del pubblico dei College al quale fondamentalmente era destinato. L’attacco ai saperi costituiti scagliato da Frau, in questo senso, si svela assai più radicale... Frau è un giornalista. Di grande livello e di una categoria particolare: si occupa di cultura, di archeologia, di storia antica. Soprattutto, si intestardisce nel volere continuare ad esserlo e si porta dietro la sua cassetta degli attrezzi lungo tutti i piani di svolgimento del libro, lungo l’intero suo vagabondaggio mediterraneo. Insegue pervicacemente la pista che ha fiutato - una costruzione politica del Mediterraneo nell’antichità - con la stessa foga di un cronista (ce ne fossero!) sulle tracce della costruzione del falso dossier sulle armi di distruzione di massa irachene. Il gioco di Frau, tuttavia, non si limita a rompere la circolarità ermeneutica delle narrazioni accademiche, facendole cortocircuitare con un metodo ad esse alternativo quale l’inchiesta giornalistica. Gli esempi di giornalisti-storici si sprecano, ma Frau - grazie a dio - non è Montanelli ed il congegno che mette al lavoro è assai più “cattivo”: fa a pezzi una intera organizzazione di procedure di controllo ed esclusione della parola; la magnifica intervista a Strabone in edizione BUR, per esempio, smonta da sola il principio del commento ed il principio d’autore, vale a dire due fra i capitali dispositivi tattici3 della tradizione occidentale in materia di esclusione e controllo della parola all’interno dei regimi di verità e dei saperi. Vi è un primo livello, dunque, di interesse sociologico nel libro e riguarda la genesi del libro stesso, l’autonomia dei meccanismi di costruzione che lo governano dai circuiti disciplinari classici, l’eccentricità del suo posizionamento all’interno del panorama editoriale di riferimento, le strategie discorsive che da esso si dipanano ed i legami che intrattengono con le forme più tradizionali di produzione della conoscenza scientifica. Altri filoni fecondi per le scienze sociali potrebbero agevolmente essere rinvenuti lungo la cresta di sutura fra mondo fenicio-punico ed Occidente mediterraneo, fra Anatolia, Balcani e civiltà nuragica. Le tecniche di lavorazione dei metalli, alcune forme architettoniche, i tanti motivi ornamentali tessili che uniscono sponde tanto lontane nel segno rovesciato, speculare, di Herakles/Milqart, potrebbero recare in sottotraccia la spiegazione di altre parentele antropologiche, fornire materiali preziosi per l’esplorazione di luoghi cruciali della riflessione socioetnografica in ambito giuridico: dagli studi ormai classici sull’opposizione fra diritti popolari e diritto egemone4 a quelli coordinati più di recente dalla Di Bella5 sui meccanismi di sanzionamento del furto in area mediterranea, a quell’attitudine compositivo-mediatoria più volte riscontrata negli ordinamenti giuridici informali di queste popolazioni, dalle comunità barbaricine della Sardegna al Kanun balcanico, alla giurisprudenza degli shuyuk nelle qabile del mondo arabo e berbero, ossia a quella pratica di amministrazione della giustizia che si contrappone al diritto a sua volta egemone nell’altra metà del Mediterraneo che è il fiq, il diritto islamico consolidato. Tuttavia, nella cartografia che Frau ci restituisce, assai più importante, oggi, dei punti d’unione, delle vicinanze, di tutto ciò che è comune e condiviso, supposta koinè mediterranea senza increspature, mi sembra essere lo spazio del pòlemos e delle fratture, delle discontinuità e delle distanze. La melassa densa di un mediterraneismo culturalista, esattamente simmetrico al differenzialismo che erige incessantemente barriere etniche sul confine Sud dell’Europa, alimenta nell’oggi, acriticamente, l’idea di ininterrotte continuità fra sponde diverse. Oleografiche rappresentazioni di un pensiero “meridiano” capace di unire in una pretesa attitudine agli otia filosofici ed in una generalizzata propensione alla fuga dalla modernità industriale, popolazioni che la ristrutturazione globale del mercato del lavoro condanna a ranghi sempre più marginali e popolazioni che gli effetti di tale ristrutturazione difendono a colpi di cannone, occultano con insistito zelo la portata reale degli interessi in campo e la durezza delle dinamiche geopolitiche ed economiche all’opera nel presente del Mediterraneo. Il Mediterraneo costituisce uno spazio sociologicamente complesso, la cui natura è insieme storica e politica, un ordine discorsivo dalla genealogia plurale, attraversato da molteplici linee di scontro, rapporti di forza e narrazioni strategiche. I molti nomi che lo hanno designato e lo designano - da Mare Nostrum a Bahr al-Rumi - testimoniano da sole le assenze, le distorsioni, le reinvenzioni nostalgiche e, in definitiva, la differente e mutevole valenza politica assegnata a questo spazio d’acqua dalle popolazioni che lo fronteggiano6. Il legame forte con l’Africa che caratterizza la rivoluzione nasseriana in Egitto, la forte dominanza degli sceiccati di montagna nella storia del Libano, il ripiegamento verso l’interno anatolico della Turchia conseguente alla disfatta imperiale della prima guerra mondiale, in generale la nostalgia dei deserti, nucleo originario dello scoccare della scintilla dell’Islam, fanno sì che paesi e popoli delle sponde meridionali ed orientali attribuiscano a questo mare ed alle epopee fenicia e punica dei propri antenati assai meno valenza simbolica e politica di quanto accada a Nord-Ovest, ove le narrazioni d’accompagnamento dell’espansionismo coloniale hanno, al contrario, prodotto formidabili miti di continuità con le ascendenze greco-romane, dall’”Arcadia” di Goethe alle “nostalgie latine” à la Mauras e à la Pirenne in Francia7, sino alla “Terza Roma” di Mussolini8. Via via, lungo il corso del XVIII e, soprattutto, del XIX secolo, tale continuità con il mondo classico subirà un processo di scissione: l’”eredità degli Antichi”, la loro saggezza, la loro cultura saranno assegnati al Nord (la Germania, in particolare, assumerà su di sé il tòpos di “erede della filosofia greca”) mentre - soprattutto grazie al moltiplicarsi delle missioni archeologiche ed ai loro fortunati ritrovamenti - il Sud verrà progressivamente sussunto nello spazio discorsivo del “Mediterraneo”. Il patrimonio spirituale degli Antichi, la sua essenza più “autentica”, che permise a Greci e Romani di primeggiare fra gli altri popoli, andrà a chi - come ogni buon erede - saprà trasformarla, metterla in valore, produrla entro il quadro della modernità industriale gettando le basi di una nuova egemonia. Il Mediterraneo custodirà i luoghi - ed insieme, leopardianamente9, il tempo cristallizzato e reso inerte - dell’Antico: i meridionali - mediterranei e meridiani - “incarneranno”, dunque, l’Antico, recandolo impresso fisicamente nell’arretratezza dei propri costumi, nell’assenza doppia di modernità e sviluppo, secondo una nuova topologia, indispensabile a fondare, per contrasto, la modernità dell’Europa settentrionale10. Come gli zoo o le tavole degli atlanti etnografici, l’archeologia assumerà sempre più una funzione allegorica, di irrinunciabile testimone del compimento del rito di passaggio dalla sauvagerie pre-moderna alla modernità adulta. A partire da questa discontinuità si dipanano le figure geminali della meridionalità e della settentrionalità e, nel loro segno, l’intera gamma delle sequenze teoriche di razzizzazione-inferiorizzazione delle popolazioni mediterranee che, con gli stereotipi connessi di abulìa, indolenza, renitenza al lavoro, arretratezza, barbarie, inciviltà, ambiguità, ferocia, mollezza, effeminatezza etc., accomunano Calabresi e Turchi, Siciliani e Tunisini, Napoletani e Libanesi. Da Montesquieu11 a Goethe12, da Niceforo13 a Lewis14, dall’Illuminismo al Romanticismo, al Positivismo ed all’Orientalismo più recente15, questi modelli di etnicizzazione del Mediterraneo hanno conosciuto pochissime variazioni significative e, per quanto si sforzino di rivolgerlo in positivo, è esattamente questo il fondo mitico cui sembrano invariabilmente rivolgersi persino gli apostoli della nuova koiné meridiana: valga per tutti l’interpretazione del rapporto dei meridionali con la modernità e segnatamente con il lavoro industriale offerta da Franco Cassano16, le cui molte buone ragioni (la critica di una modernizzazione spersonalizzante e a dominio unico, interamente affidata al mercato) risultano però annegate nella rievocazione di un’identità del Mediterraneo dai contorni fissi, definiti una volta per sempre proprio da coloro che li hanno utilizzati per costituire il Mediterraneo in irriducibile alterità. L’indugiare più o meno nostalgico, più o meno compiaciuto, sopra i récits dell’identità/differenza culturale, comporta inevitabilmente l’opacizzazione dei meccanismi reali di gerarchizzazione dei territori e dei gruppi sociali, tra cui l’occultamento dei macroscopici fenomeni diasporici ben visibili lungo l’asse Sud-Nord, movimenti migratori intraeuropei prima, poi, crescentemente, transmediterranei: l’unico ad accorgersi della natura ideologica di tali definizioni sembra essere, paradossalmente, proprio il mercato, che non ha mai smesso di reclutare al Sud quote ingenti di manodopera per le proprie imprese (meridiani indolenti che, evidentemente, una volta strappati al proprio territorio, perdono questa spiacevole caratteristica...). Le identità, insomma, sono dotate di una natura intrinsecamente problematica17, ed eminentemente relazionale, politica (non casualmente, se il Nord incarna per gli Europei il principio maschile ed il Sud è per essi irrimediabilmente “femmina”, la localizzazione è ribaltata con precisa simmetria dalla letteratura islamica, che pensa sempre il Nord al femminile...). Le identità si costituiscono proprio in funzione dell’alterità, anzi, nel caso dell’identità mediterranea, sono etero-costituite - unilateralmente - come “altro” dalla razionalità nordeuropea (gli stessi programmi di cooperazione euro-mediterranea della UE, Meda etc., sembrano recepire sin nel lessico tale irriducibilità, con tutta la gamma - a tratti autenticamente pittoresca - di specializzazioni funzionali “tipiche” attribuite ai vari paesi...). Soltanto a partire dalla natura fittizia del gioco identitario possono essere comprese alcune scissioni più recenti dell’unità del Mediterraneo negli immaginari collettivi del nostro paese, percepito in Europa come integralmente mediterraneo, ma capace di produrre al proprio interno non solo virulenti revival dell’opposizione Padania/Terronia ma anche rifunzionalizzazioni particolarmente aggressive del mito dell’Islam, da utilizzarsi tanto nelle pratiche quotidiane di marginalizzazione dei migranti quanto nella difesa armata dei propri interessi economici e strategici - irriducibilmente divergenti da quelli delle sponde sud-orientali - elevata di volta in volta al rango di “guerra umanitaria”, “guerra preventiva” e, soprattutto, missione civilizzatrice. Tali pratiche discorsive intrattengono un legame assai stretto con gli interessi in campo e non esitano ad includere, nei meccanismi stessi di produzione delle identità, enunciazioni apertamente razziste; il razzismo, infatti, può fare a meno non soltanto della biologia ma anche del ricorso a dispositivi di inferiorizzazione esplicita: la sua natura autentica è, piuttosto, precisamente, nel porre in essere la differenza, fissando le identità una volta per sempre18. Da questo punto di vista, le suggestioni di un libro non disciplinare e non disciplinato come le Colonne d’Ercole possono essere estremamente utili. Esso sembra sottrarre, infatti, parecchio carburante al serbatoio mitico dell’Antico (così importante per l’elaborazione delle contemporanee strategie identitarie), svelando quanto convenzionale e oggetto di più o meno consapevoli manipolazioni l’idea di Mediterraneo fosse già qualche millennio addietro, proprio nel tempo aurorale in cui tutti i miti relativi ad esso incontrano la propria origine. La mia disciplina - tra i primi ad insegnarcelo fu Pierre Bourdieu19 - è essenzialmente una topologia, ossia una rappresentazione del mondo come spazio rigorosamente costituito secondo principi di differenziazione e distribuzione, al cui interno i soggetti possono essere definiti reciprocamente, in base alle distanze ed alle posizioni relative da essi occupate. Si tratta, in definitiva, di una sapiente arte classificatoria: classificazione dei gruppi umani (per “classe”, ”etnia”, ”cultura”, ”origine”, “condizione psicofisica”, ”opzioni politiche o religiose”, ”preferenze sessuali” etc.) ed attribuzione di essi allo spazio (lo zoning delle città in base allo status degli abitanti, le aree “per i giovani”, i luoghi per i migranti, i luoghi d’internamento e reclusione etc.). Se il mestiere di sociologo può, dunque, apparentarsi spesso a quello di cartografo, se la sociologia corrisponde ad una sorta di economia politica degli spazi, il libro di Frau ha il merito di svelarci un’altra illuminante parentela, quella fra la “geografia” e la “storia” (”La prima Geografia. Tutt’altra Storia”, recita l’occhiello posto sopra il titolo del libro...). La collocazione “itinerante” delle Colonne d’Ercole, questo loro vagare sul mare come madonne pellegrine, rivela così, sotto i colpi di scandaglio dell’autore, una sua politicità complessa e densa. Le Colonne vagano nello spazio in funzione del tempo, registrano ogni mutamento nella scansione politica del tempo e - proprio come madonne pellegrine - assumono su di sé una funzione eminentemente comunicativa: è tale mutamento politico che esse devono, di volta in volta, trasmettere simbolicamente. Ogni volta, nella collocazione delle Colonne, si assiste ad un gesto fondativo, alla nascita di un nuovo ordine politico e commerciale. Ogni collocazione è, perciò, sempre dislocazione: tutte le volte le Colonne vengono posizionate guardando a qualcos’altro. Ogni volta si assiste ad un gioco sapiente di messa in relazione fra sponde, punti, empori, colonie, città; triangolazioni sapienti accendono o spengono vicinanze e distanze fra aree, illuminano continuità culturali e altre consegnano alle tenebre. Tutte le decisioni - economiche, politiche, militari - si fondano, in definitiva, su rappresentazioni dello spazio e sono portatrici di un gioco spaziale: si tratta, dunque, di analizzare gli elementi che permettono agli attori di pensare lo spazio e di comprendere come essi costruiscano, controllino ed in certa misura subiscano lo spazio. Rompendo con un’intera tradizione storiografica che ha privilegiato unilateralmente la relazione degli avvenimenti con il tempo, Frau si preoccupa di riposizionare i fatti in rapporto allo spazio e di evidenziare più complessivamente il rapporto che lega insieme, nel prodursi degli avvenimenti, lo spazio e il tempo alle idee ed ai miti che li descrivono. Ogni volta - ci dice l’autore - che Strabone, Erodoto o gli storiografi alessandrini giocano con le Colonne e con il tempo, stanno dando vita ad una geografia intera, una geografia politica, una geopolitica in senso proprio... Le narrazioni del mondo, i grandi récits sulla genealogia delle nazioni ordinano gli avvenimenti lungo sequenze temporali precise ma si avvalgono pure, con altrettanta precisione, di marcatori spaziali: fra questi, un ruolo cruciale è rivestito dai toponimi. Nel decostruire certosinamente proprio le disavventure di alcuni toponimi all’interno del bacino mediterraneo, Frau ne svela la natura autentica di micro-récits: il toponimo definisce il territorio del racconto, ovvero definisce il contenuto del racconto come territorio; rinvia incessantemente ad una relazione fra luoghi, gruppi umani e, nel far ciò, ne misura implicitamente le distanze. Per riprendere Pierre Jourde20, lo spazio immaginario non si dispiega se non facendosi teatro di una ricerca... Ricerca di cosa? Si tratta di trovare un centro, ossia una fonte, un’origine (Ursprung?) che altro non può essere che la confluenza primigenia di spazio e tempo. Gli immaginari collettivi si nutrono di spazio contro il tempo e la sua inevitabile dissipazione, istituiscono lo spazio come memoria (cos’è un museo, se non una spazializzazione del tempo?) ed i toponimi non hanno altra funzione che quella di restituire alla narrazione il senso smarrito di quella fusione originaria - ed “originale”, in quanto postulata come unica dalla pretesa di verità propria di ciascun racconto - di spazio e di tempo. Così, Eratostene, manipolando parecchi toponimi, avrebbe trasferito le Colonne dal Canale di Sicilia a Gibilterra soltanto nel III secolo avanti Cristo, quando le conquiste di Alessandro ad Oriente imponevano ormai il reperimento di un nuovo baricentro, più avanzato, al mantenimento della centralità egemonica della Grecia. Sembrerebbe la tesi centrale del libro di Frau e forse, per uno storico del mondo antico, lo è; ma emerge anche dell’altro, al fondo di questa ricerca così poco ordinaria, ed è la tangibilità del confine, di tutti i confini... Che le Colonne fossero localizzate a cavallo di Calpe e Abila, di fronte a Cadice/Gades o tra il Lilibeo e Capo Bon, la loro funzione era sempre la stessa: indicare il confine, perimetrare lo spazio dell’ecumene politico-economico, scongiurarne la violazione. Le Colonne precedono di qualche millennio la cresta impavesata delle frontiere degli Stati-Nazione, eppure ne incorporano già tutte le funzioni simboliche. Secoli e secoli dopo, esse avrebbero campeggiato in versione dorata sullo stemma imperiale di Carlo V, a delimitare il “dentro”, i limiti e l’identità dell’Europa, ma già dalla loro prima comparsa questo “dentro” doveva definire simmetricamente il suo “fuori”: quell’hic sunt leones che ammonisce gli Europei sin dalle loro cartografie più antiche e che indica ben altro, ben altra alterità al proprio “di là” che i profumati Giardini delle Esperidi... Oltre le Colonne si estende il mondo sconfinato dell’alternativa sauvage alla razionalità ed al potere dell’Occidente: il mondo fenicio-punico con l’oscurità dei suoi riti sacrificali si erge quale contraltare minaccioso alla “bianca” Grecia aerografata degli immaginari neoclassici, anticipando la costruzione di quella doppia opposizione Nord/Sud e Ovest/Est che guiderà tanto l’espansionismo coloniale europeo nel XIX secolo, quanto le guerre sante dei nostri giorni. Le Colonne hanno forse una particolarità mai esplicitata: quella di poter essere guardate sia orizzontalmente, lungo l’asse dei meridiani, che verticalmente, lungo i paralleli, e tale particolarità riflette come in uno specchio la particolarità del mondo fenicio-punico cui l’Occidente doveva contrapporsi. Come una mezza luna rovesciata sul fianco, lo spirito fenicio correva, infatti, dalle coste dell’Asia Minore all’Anatolia ed ai Balcani, e giù, lungo l’Africa Settentrionale, per poi risalire a Nord, verso la Penisola Iberica. Di qui la natura doppia del confine, longitudinale e latitudinale, che le Colonne hanno fissato negli immaginari degli antichi come dei moderni. Come non vedere, infatti che il confine segnato da questa falce rovesciata è precisamente lo stesso che contrappone ancora oggi l’Europa alle folle di disperati che l’assediano, sia che essi si incarnino nelle figure dei migranti, sia che prendano le sembianze minacciose dei “kamikaze” islamici? In epoche successive Tiro, Sidone, Canaan, Cartagine - proprio come Tunisi, Fez, Baghdad, Gaza agli occhi degli Occidentali di oggi - costituirono l’incubo commerciale dei Greci, quello militare degli Ebrei e quello politico dei Romani: nessuna meraviglia che frontiere potenti, anche simboliche, dovessero essere erette incessantemente; che intorno a quella civiltà fiorissero a centinaia leggende truci, come quella dei sacrifici umani tributati al dio Baal; leggende non troppo dissimili, al fondo, dal canto rauco del taglione e della barbarie, del velo e dell’harem, che i mass media non mancano mai di intonare nel tempo presente, ogni qualvolta il bisogno di ricordarci la torva minacciosità dell’Islam si faccia più impellente. La storia, si sa, non appartiene ai vinti: fu Annibale ad indugiare alle porte di Capua ed i Romani a poter spargere sale e ceneri sulle rovine di Cartagine, dalle genti d’Israele sarebbe presto nato il Cristo e dinamiche storiche di portata immensa e, quanto alla storia della Grecia, le scoperte di Schliemann ed il sogno dorico-ariano che le avrebbe accompagnate si incaricheranno di espungere tutti quegli elementi di contiguità commerciale e culturale con l’altra sponda del Mediterraneo che i Greci antichi non ignoravano certo, a partire da Erodoto... Proprio il riposizionamento delle Colonne d’Ercole al centro del Canale di Sicilia operato da Frau, del resto, può non solo rivelarsi illuminante per i destini storiografici della Sardegna e di Atlantide, ma urlare in faccia ai moderni la scomoda verità di un Mediterraneo profondamente diviso, al di là di ogni sua oleografica rappresentazione culturalista. La geografia delle navi è rimasta la stessa. È proprio dentro quei fondali bassi delle Sirti che la sfida tra le due sponde del mare va ancora in scena, immutata: da una parte teatro di battaglia per carrette e cannoniere, dall’altra limite invalicabile per le navi da crociera, non possumus ultra al di là del quale i brokers aumentano vertiginosamente i premi assicurativi. Mai come oggi è stato chiaro che le Colonne segnano il confine non già tra l’Europa e l’Atlantico (il filo-atlantismo è ormai parte integrante del bagaglio politico europeo), bensì un confine tutto interno al Mediterraneo, un confine fra sponde che si attraggono e si respingono, come nel gioco fra la luna e le maree. Frau, da uomo di scienza (quale difficilmente ammetterebbe di essere...), si preoccupa innanzitutto di ricostruire i meccanismi profondi di queste attrazioni e di queste ripulse: ci restituisce con minuzia i flussi di quelle antiche economie del bronzo e del ferro, le posizioni relative di coloro che li producevano e di coloro che li consumavano, il regime politico di questi scambi, i precari equilibri militari e le asimmetrie economiche. Ma, da buon marinaio (l’attributo lo gratificherà senz’altro di più...), l’autore si preoccupa anche degli effetti, dell’onda lunga che le maree degli apparati discorsivi possono produrre nella rappresentazione che ciascun popolo proietta sull’altro (l’Europa, in effetti, può funzionare come “Occidente” - accadico erebu, fenicio ereb, la stessa radice semitica dell’arabo Maghreb - soltanto a partire dal proprio Mashreq, dall’esistenza di un suo specifico “Oriente”...). La lezione metodologica che questo libro può offrire alle scienze sociali così spesso afasiche rispetto alla natura profonda della crisi che segna il Mediterraneo di oggi, è dunque duplice. I sofisticati apparati metodologici delle scienze sociali sembrano, infatti, ritrarsi, declinare e implodere ogni qualvolta si tratti di descrivere l’alterità: una sorta di homo islamicus può, ad esempio, materializzarsi sotto i nostri occhi impotenti ed il suo fondamentalismo, decontestualizzato e privato di qualsiasi attribuzione storica, può prescindere da qualunque fra gli elementi comunemente ritenuti irrinunciabili per la descrizione di uno qualsiasi (anche il più banale: il consumo di alcool o l’assenteismo scolastico...) fra i comportamenti dell’uomo occidentale: caratteristiche generazionali, ragioni politiche, motivazioni economiche... Le pazienti domande di Frau sugli elementi strutturali delle relazioni intramediterranee, i suoi interrogativi sui prodotti e sui produttori, sui modi di consumare e di proteggere - anche con le armi - i propri consumi, sollecitano una riscrittura del Mediterraneo contemporaneo a partire dalle sue guerre e dalle sue rotte migratorie, da quella apparente “residualità” cui quote crescenti di umanità in eccesso, per dirla con Bauman21, sono incessantemente risospinte dalla riconversione di un mondo globale e unipolare. Allo stesso modo, l’interrogarsi di Frau sulla fioritura di narrazioni intorno alle Colonne d’Ercole, non può non stimolare le scienze sociali ad una riflessione più meditata sulla natura discorsiva dei confini22. Cosa sono, oggi, i confini? Parte integrante dei miti sull’unità e sulla differenza, comunità politiche immaginarie che possono persino trascendere i limiti dello Stato-Nazione, come nel caso della fondazione europea o del mito che può incorporare in un unico Occidente/Nord contrapposto ai Sud e agli Orienti del mondo non solo l’Europa e l’America, ma addirittura Israele ed il Giappone (e, un tempo non lontano, il Sudafrica)... Il punto è che queste immagini mentali sono quotidianamente sperimentate da milioni di esseri umani che da esse sono regolati, influenzati, disciplinati, respinti o relegati al margine della nuda vita. I lividi fari delle frontiere sembrano illuminare un mondo sempre più foucaultiano al cui interno le loro manifestazioni fisiche - le barriere, i controlli di polizia, gli strumenti del diritto internazionale pubblico - rinviano incessantemente ai discorsi ed alle relazioni di potere in essi incorporate. L’utilizzazione delle frontiere come marcatori d’identità, come strumenti di difesa culturale e le frontiere fisiche con i loro dispositivi descrivono la medesima configurazione delle relazioni di potere e delle ideologie territoriali ad esse associate Predrag Matvejevic notava acutamente da qualche parte, nel suo magnifico libro sul Mediterraneo24, che manicomi e carceri (oggi potremmo aggiungere qualche CPT, come quello di Lampedusa...) fronteggiano assai spesso il mare, vi si affacciano, ma, in realtà, sembra di poter dire che è l’idea stessa di Mediterraneo, la sua rappresentazione, a manifestare un carattere intrinsecamente eterotopico25, nella sua messa in scena come alterità radicale, rappresentazione contestata e sovvertita della modernità entro cui amiamo collocarci, eppure specchio di essa, ad essa legata da una insopprimibile relazione, costituita, anzi, precisamente in funzione di essa, come un manicomio può aver senso soltanto in funzione del proprio “fuori”. È proprio tale carattere eterotopico, socialmente costruito, del Mediterraneo che rende possibile la coesistenza di narrazioni sincrone sulla sua “unità” e sulle differenze irriducibili che l’attraverserebbero, i modelli meridiani della “dieta mediterranea” che unisce nel segno dell’olio d’oliva e dimentica la barriera del consumo di vino e carni di porco e quelli bellicisti dello “scontro di civiltà”26, indifferenti alle ragioni economiche e politiche di tale scontro, immemori delle matrici comuni a fondamento delle tre Religioni del Libro. Le eterotopie, quelle fisiche e quelle discorsive, sono determinate storicamente da una funzione precisa: quella di difendere ad oltranza le società che le producono da ogni turbativa alle relazioni di potere date. In questa difesa, tuttavia, le società possono smarrire facilmente se stesse: ad Abu Ghraib o nei Centri di Permanenza Temporanea per migranti l’ordine democratico faticosamente edificato dall’Occidente può rivelare fatalmente la propria fragilità. La parola “difesa” può allora rinviare tragicamente al significato doppio che il verbo défendre assume nella lingua francese: proteggere, ma anche proibire... Tutelare, ma anche vietare: nell’ossessione sicuritaria che minaccia la nuova costituzione europea, nel ripiegamento contemporaneo della cittadinanza intorno all’idea nuda della difesa, si può allora scorgere in tutta chiarezza come - da Alessandro alle guerre coloniali della prima modernità, ad Hitler, a Saddam ed alle contemporanee democrazie occidentali in armi - sviluppare i comportamenti utilitari reprimendo quelli sovrani, reprimendo essenzialmente il desiderio come desiderio dell’altro, di conoscere l’altro, abbia costituito l’essenza fisica e la parola d’ordine di ogni politica repressiva che si sia affacciata sul Mediterraneo. Questo libro, molti secoli dopo l’Edipo di Sofocle, ci insegna di nuovo la curiosità del desiderio, ci riconcilia con la voglia di superare, infrangere il muro di questa difesa ad oltranza che è, in definitiva, proibizione di conoscere. Si tratta, naturalmente, di un percorso senza scorciatoie: incontrare l’altro presuppone - come ci ha insegnato Levinas27 - una messa in discussione radicale ed autentica del sé e dei propri limiti, abbandonare le certezze dei recinti narrativi e sfidare il mare aperto, ben oltre le Colonne d’Ercole. Nulla a che vedere, insomma, con le leziosità all’olio d’oliva dei discorsi intorno alla Cultura ed alla Tradizione mediterranea, ”che unisce i popoli” al di qua e al di là del mare: sulla problematicità storica di questo métissage, del resto, pur nella tensione costante verso l’individuazione di una comunicazione possibile all’interno del Mediterraneo, aveva già detto tutto, e molti anni orsono, Braudel28. Si chiedeva, invece, Pessoa, poeta dell’Atlantico e non del Mediterraneo: “È bello il mare delle altre terre?”. E si dava una risposta, come ogni buon poeta: “Solo il mare delle altre terre è bello...”29 . Riposizionando le Colonne, riposizionando noi stessi rispetto ad esse, la curiosità autentica, da marinaio, dalla quale è posseduto Frau fa saltare l’intero meccanismo di dislocazione convenzionale dell’altro e dell’identico e ci regala, dunque, una possibilità nuova di comprendere anche il Mediterraneo d’oggi...

note 1. S. Frau, Le Colonne d’Ercole. Un’inchiesta, Nur Neon, Roma 2002. 2. M. Bernal, Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, Free Association Books, London 1987; trad. it.: Atena Nera, Pratiche Editrice, Parma 1991. 3. Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1985. 4. Si veda L.M. Lombardi Satriani, M. Meligrana, Diritto egemone e diritto popolare. La Calabria negli studi di demologia giuridica, Jaca Book, Milano 1975. 5. Si veda M.P. Di Bella (Ed.), Vols et sanctions en Méditerranée, Éditions des archives contemporaines, Paris 1998. 6. Un’amplissima panoramica del gioco intricato di tali rappresentazioni sulle diverse sponde del Mediterraneo è offerta dalla raccolta curata da Thierry Fabre e Robert Ilbert per i tipi della Maisonneuve Larose (Les représentations de la Méditerranée, Paris 2000). 7. Un ruolo importante di accompagnamento all’espansionismo coloniale ebbero pure, per la Francia, le numerose spedizioni scientifiche succedutesi nel corso del XIX secolo (in Egitto, in Morea, in Algeria), il cui ruolo fu decisivo nei processi di costruzione di un immaginario “mediterraneo”, come testimonia Daniel Nordman nel bel libro L’invention scientifique de la Méditerranée (Ed. de l’EHESS, Paris 1998). 8. Fondamentale per l’immaginario collettivo di quegli anni in Italia, fu l’imponente opera di Attilio Brunialti e Stefano Grande: Il Mediterraneo, UTET, Torino 1924-1926. 9. Cfr. G. Leopardi, Zibaldone, Mondadori, Milano 1997. 10. Si veda, in proposito, l’acuto saggio di Marino Niola L’invenzione del Mediterraneo. Una mitologia europea (in: AA.VV., C’era una volta Napoli, Electa, Napoli 2002), cui molto deve l’ispirazione di questo scritto. 11. Cfr. Ch.L. de Secondat Montesquieu, Lo spirito delle leggi, UTET, Torino 1996. 12. Cfr. J.W. Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano 1983. 13. Cfr., ad es., di Alfredo Niceforo, Italiani del Nord e Italiani del Sud, Bocca, Torino 1901. 14. Cfr., ad es., di Bernard Lewis, Razza e colore dell’Islam, Longanesi, Milano 1975. 15. A proposito di quest’ultimo non si può non rinviare al magistrale volume di Edward W. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 1999. 16. Di questo autore, si vedano Il pensiero meridiano (Laterza, Roma-Bari 1996) e, in particolare, Modernizzare stanca (Il Mulino, Bologna 2001). 17. Cfr., in proposito, F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 2001. 18. Cfr. A. Burgio, La guerra delle razze, ManifestoLibri, Roma 2001. 19. Cfr. Espace social et génèse des “classes”, in:“Actes de la recherche en sciences sociales”, nn. 52-53, 1984. 20. Si veda l’affascinante Géographies imaginaires, José Corti, Paris 1991. 21. Cfr., ad es.: Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001. 22. Sul tema, fra i numerosi studi, si vedano in particolare: F. Barth, Ethnic groups and boundaries, Allen & Unwin, London 1969; B. Anderson, Imagined Communities. An Inquiry into the Origins and Spread of Nationalism, Verso, New York 1991; Michel Foucher, Fronts et frontières : un tour du monde géopolitique, Fayard, Paris 1991; M. Anderson, Frontiers, territory and State formation in the Modern world, Polity Press, Cambridge 1996; M. Anderson, E. Bort (eds), The Frontiers of Europe, Pinter, London 1997. 23. Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995. 24. P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, Garzanti, Milano 1993. 25. Per il concetto di “eterotopia”, cfr. Michel Foucault, Eterotopia, Millepiani, Mimesis, Milano 1994. La responsabilità della forzatura nell’utilizzo, metaforico, di tale concetto è naturalmente soltanto mia. 26. Cfr. S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000. 27. E. Levinas, Dall’altro all’io, Meltemi, Roma 2002. 28. F. Braudel, Il Mediterraneo, Bompiani, Milano 1987. 29. F. Pessoa, Il marinaio. Dramma statico in un quadro, Einaudi, Torino 1996.