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Gli Autori in mostra / Pietre, feste, tradizioni...Caccia grossa all’Emozione, di Franco Stefano Ruiu

venerdì 21 gennaio 2005

Trovandomi nella situazione di dover tessere lodi alla terra che mi ha dato i natali e dovendo ricorrere, per farlo, a slogan o frasi ad effetto, non avrei il minimo dubbio. Il meglio del meglio, per quanto mi è dato sapere, ritengo che stia nelle poche parole che appresso riporto: “Io non so quale altra terra sul globo concentri in più piccolo spazio più meraviglie quanto a natura, più varietà quanto all’uomo. In una stessa giornata si cambia di popolo, di lingua, di vesti, di razza, come si cambia di contrada...”

A esternare stupore è un forestiero speciale, di fine Ottocento, sbarcato in Sardegna per fare mattanza, pardon, “Caccia grossa”, come lui stesso ebbe a dire e la caccia in questione non riguardava cinghiali, bensì mastrucati banditi. Fiorentino di nascita e militare per stirpe, Giulio Bechi approda in Sardegna col dovere di estirpare i briganti, autentica piaga sociale. Bruscamente si trova a contatto con una realtà sconvolgente. La natura è selvaggia e il presente dà l’idea di non esserci più. I salotti che lui frequentava a Firenze, per sfoggiare divise, di colpo appartengono a un passato remoto e a un futuro abbastanza improbabile. Il pregiudizio, che di certo gli è stato compagno, si dimostra più che legittimo. I criminali ci sono davvero, belve umane, e a frotte i fiancheggiatori. E’ la gente comune che però gli dà da pensare. Sopporta in povertà quasi estrema, dignitosa, e trascina le proprie esistenze in un mare di usanze assolutamente inusuali. Il bel tenentino ben presto si accorge di calpestare una terra speciale. Mai niente di simile altrove: eppure lui ha girato... “Io non so quale terra...”.
Nasce il libro “Caccia grossa”, e con esso un vespaio. La critica è contro, feroce, e si arriva al fatto politico. Personalmente, col senno di poi, avendo letto ben altro di più scandaloso, non mi sento di partecipare a quel “dagli all’untore” del tempo. L’orgoglio del mio essere sardo non viene scalfito dalle circostanze narrate e dai modi. Di tutto l’insieme del libro a coinvolgermi è solo l’idillio che emana da quelle “frasi ad effetto”. Meno male che non era di parte! Nell’anno 2000 ho avuto il piacere di diventare l’autore di “Un’isola in festa”. Per la premessa, quasi a volerne fare una sintesi, le ho volute citare, quelle frasi ad effetto, e la cosa ancora mi aggrada. Ovvio che anche adesso, in questo frangente che mi vede coinvolto nell’approdo virtuale alla mitica terra di Atlante, le ritenga assolutamente efficaci e opportune.
“Io non so quale terra ... si cambia di popolo, di lingua, di vesti, di razza...”.
A rileggerle, col dovuto rispetto, sembra proprio di trovarsi al cospetto di un “piccolo resto” del mito custodito da colonne eraclee. La Sardegna che Bechi ebbe modo di tastare con mano, se pur manomessa da infiniti padroni, annoverava realtà che più non ci sono, nel bene e nel male. Ebbene, per assurdo che possa sembrare, a girovagare in Sardegna, dopo circa cent’anni, nonostante le ulteriori mutazioni avvenute, volendo si riesce a provare lo stesso stupore. Io, per diletto, questo andare su e giù lo faccio da circa trent’anni. Miei compagni: una reflex, un grandangolo spinto e uno zoom a scartamento ridotto con l’aggiunta di tanta passione. Vò cercando tesori che sanno di antico: pietre, feste ed usanze. Mio proposito è provare emozioni, da narrare a mia volta, assemblando sequenze di immagini con parole appropriate. Alla resa dei conti, ogni volta che scappo di casa, rimango senza parole nel sentirmi in perfetta simbiosi con le osservazioni di Bechi: “In una stessa giornata si cambia di popolo, di lingua, di vesti, di razza, come si cambia di contrada...” Propongo un’alzata di mano per fare la conta di chi, ritenendo di conoscere l’isola, se la sente di affermare il contrario! Ancora oggi, nonostante i misfatti compiuti nel tempo in campo ambientale e cultural-popolare, nulla è mutato; cambiando contrada si continua a cambiare di usanze e di popolo. E’ un rendersi conto, abbastanza eloquente, che dovrebbe portarci a riflettere. Da quando e perché non altrove, perché proprio qui, un eccesso siffatto di variegate culture? Soprattutto: DA QUANDO? Da sempre? Non credo. Comunque è impossibile che uno spicchio di terra sia stato capace di generare così tante etnie, talvolta diametralmente contrarie. Ogni paese, soprattutto all’interno, continua ad avere, assai radicato, un suo modo di fare, di dire, cantare, ballare, gioire, affrontare il dolore. Il pane, poi, è un capitolo a parte tanto è sacrale, mica cibo soltanto. Sovente mi accorgo di fare confronti con usanze di lidi lontani, e somiglianze ne trovo. Per provare l’esotico, ancora oggi, non serve salpare. Certi riti, se pur manomessi dal tempo e dall’uomo, si vede che sono frutto di cocciute memorie passive che rimandano a comportamenti ancestrali, riscontrabili altrove. I simboli, poi, che aiutavano a credere. Che ricchezza andata svanita! Sapessimo cogliere quel che resta dei nostri natali e riuscissimo a dare tutela. Potessimo riannodare i fili recisi della memoria, tornare a ritroso nel tempo, fino a quando ... già, fino a quando?
Sergio Frau ci dice di un tempo e di un modo che hanno coinciso con la fine di una grande cultura. A seguire abbandono. Già, ma la terra rimane! E sul gigante caduto si avventano quelli che possono. E’ probabile che, senza più torri a difesa, le genti abbiano osato e siano venute perché attratte dal mito di prima. Di certo le coste avranno visto arrivare cristiani (nel senso di uomini) legati a catena, costretti a produrre la ricchezza degli altri. Come pure genìe di scampati a varie intemperie. Però, lo ripeto, perché non pensare ad un tempo in cui tanti venivano, di diverse etnie, convinti di trovar l’Eldorado? Se l’isola fosse stata un approdo insicuro, un luogo in cui non riuscire a trovare un riparo ospitale e metter radici, oggi, a distanza di tempo, saremmo ancora a fare la conta di queste innegabili “più varietà quanto all’uomo”? Non credo. Una volta finito il bisogno, qualunque esso fosse, il cammino poteva riprendere. E invece no, le genti che sono venute, più o meno in pace, ci sono rimaste, piantando le tende delle rispettive culture, difendendole, credendo al domani, sicure di essere giunte in un mondo speciale, nella terra di Atlante. Che le genti, di prima e di dopo, fossero zente ‘e gabbale, come usiamo dire da noi per quelli che valgono, lo attestano i resti rimasti: di pietre, di feste e di usanze. Io continuo a cercarli e a interessarmi di loro. Sergio Frau ha sfondato le barriere dell’ovvio, del quasi scontato (pensandoci ora), e lo ha fatto con estremo rigore. Credo abbia inteso tracciare una rotta per fare ritorno a una mitica terra promessa, con più credito e più convinzioni. Io gli porgo la mano, per quel poco che posso, e lo faccio dicendogli grazie per avermi invitato a questo ideale convito. A cose più grandi.