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Gli Autori in mostra / L’Isola Ritrovata e i Fantasmi del Sinis, di Francesco Cubeddu

venerdì 21 gennaio 2005

Chi l’avrebbe immaginato, solo alcuni anni fa - in quest’isola pigra, isola di pastori e banditi, nuraghi e Costa Smeralda, in quest’isola senza lavoro, senza certezze, dove non si conosce neanche il numero dei suoi monumenti simbolo: i nuraghi?

C’è chi dice che siano settemila, chi ottomila, altri diecimila, ma non ho mai sentito nessuno dire novemila, perché? In quest’isola dove l’archeologia segue strade misteriose, chiare (forse) ai soli iniziati, quelli che bocciano la datazione al radiocarbonio di reperti del periodo nuragico, effettuata negli U.S.A. dove di certe cose se ne intendono! La bocciano perché è più antica della datazione concordata dagli indigeni - stabilita chissà come e chissà da chi - ma sacra e intoccabile quanto un’ostia consacrata!
No! Non l’avrei mai detto - e forse non ho azzardato mai neanche sperarlo - che un cataclisma del genere potesse abbattersi su quest’isola antica. Uno tsunami si è abbattuto sul Mediterraneo spazzando via certezze ormai consolidate come quella della Sardegna, isola ai margini della storia, abitata da pastori rissaioli sin dalla notte dei tempi buoni solo a costruire (chissà come, e perché poi?), quelle torri di pietra così carine e caratteristiche.
Ma invece quest’isola di certezze incerte è stata investita da uno tsunami, un’onda anomala, che provoca devastazioni, come i tornado americani e visto che loro le battezzano con nomi di donna queste catastrofi, lo faccio anch’io! Solo che, da buon sardo maschilista, gli do un nome da uomo: Sergio.
Sergio è partito da Gibilterra, dove ha scardinato le mitiche Colonne d’Ercole, restituendole al loro luogo d’origine: il Canale di Sicilia. E già questo ha creato uno scompiglio - anomalo come l’onda - che ha rimesso al loro posto i tasselli dell’antico e sconclusionato mosaico storico-geografico del Mediterraneo annichilendo l’antica maledizione che da millenni confonde la vista di chi guarda la grande isola, messa lì, al centro del Mediterraneo occidentale (e che tutti, ormai, credevano essere inutile: buona solo per le vacanze al mare), rivelandone la vera identità: l’Isola di Atlante; sì proprio quella di Platone, mica quella dei film di fantascienza.
La mia Sardegna!
Da bambino mi dicevano che ero sardo e italiano; io non ci capivo niente! Mi sembrava una contraddizione. Io ero sardo, l’italiano era un’altra cosa... Era una lingua straniera che ho dovuto imparare a scuola, quella scuola dove però dovevi dimenticare che eri sardo; dove della Sardegna dovevi sapere solo qual era il fiume principale, la montagna più alta e le tre province; quasi dovevi vergognarti di essere sardo!
E i nuraghi? Li conoscevo bene quelli! Ci andavo a giocare con gli amici; i vecchi ci dicevano che li avevano costruiti i Giganti, quelli che poi erano stati sepolti in quelle tombe lunghe fatte con enormi lastroni di pietra. Io ci credevo: solo dei Giganti avrebbero potuto mettere uno sull’altro quegli enormi massi di basalto, ma a scuola non mi dicevano niente, neanche al liceo si studiava la storia della Sardegna, anzi in molti libri le cartine geografiche manco ce l’avevano la Sardegna! Uno dei pochi esami che ho dato all’università era Storia della Sardegna, presi 28 ma sui nuraghi ne sapevo quanto prima!
Così ho dovuto studiare per conto mio la storia di quest’isola balneare. I libri erano pochi e barbosi e raccontavano tutti la stessa storia: i nuragici erano pastori-guerrieri, costruirono queste torri di pietra che non si sapeva bene a cosa servissero, forse come rifugio durante le interminabili lotte tra tribù, forse luoghi di culto (sette-diecimila chiese??), forse... E che i nuragici, però, erano solo quattro gatti ed erano allergici al mare!
Non mi convinceva: più ne vedevo di nuraghi e meno mi convincevano le storie che leggevo. Mi è sempre piaciuto andare a spasso in campagna. Fossi nato 200 anni fa sarei stato un esploratore! Tutte le volte che potevo ero lì, in giro per il Montiferru, a scoprire nuraghi sepolti sotto coltri di rovi, a cercare strani allineamenti di pietre, a giocare a fare l’esploratore; sin da bambino quando tra i minerali del prozio farmacista trovai quelle schegge di notte, piccole pietre nere, l’ossidiana! La pietra che gli antichi usavano per fare le punte di freccia, questo mi dissero, ed io speravo sempre di trovarne qualcuna. La trovai, un giorno di febbraio, mentre seminavo le patate nell’orto, era lì, in mezzo al solco, piccola e sporca di terra ma io la riconobbi subito era uguale a quelle delle foto che c’erano su “Mondo Archeologico”, la rivista che compravo tutti i mesi.
Fu un’emozione speciale avere tra le mani una cuspide di freccia vecchia di migliaia di anni!
L’archeologia non era la mia unica passione. Ce n’erano delle altre: il volo e la fotografia, con gli anni riuscii a soddisfarle tutte, un po’ alla volta. Prima la fotografia. Dopo aver passato la fanciullezza a scattare foto con quelle macchine di plastica nera che mi aveva regalato lo zio Benedetto, mio padre mi permise di utilizzare la Zeiss Ikon che aveva comprato da un soldato tedesco nel ’40. Poi, quando mi sposai, mia cognata mi regalò una splendida reflex. Divenni pilota di aerei ultraleggeri ma non potei soddisfare il mio desiderio di portare in volo la mia bella macchina fotografica: la legge italiana lo vietava! Era una vecchia legge del 1923, contro lo spionaggio militare; sì, era sorpassata ma era sempre valida!
Dall’ultraleggero passai al parapendio, e fu un amore travolgente! Potevo volare liberamente senza dovermi stressare con comproprietari di aerei, aeroporti e tutte le palle burocratiche. Col parapendio volavo dappertutto dal Nord al Sud della mia Sardegna e, nel ’93, un anno dopo il corso di volo, cominciai a portarmela in volo la reflex. Non mi fregava niente di fare la spia, volevo rubare quelle immagini che solo nel cielo puoi trovare!
Arrivò il giorno che riuscii a volare nel mio territorio: il Montiferru; quel giorno vidi dall’alto quei nuraghi che conoscevo così bene. Fui fortunato: la meteo era ideale, una tranquilla termodinamica mi permise di godere la sensazione quasi divina di passeggiare nell’aria, nella terza dimensione, osservando dall’alto quelle torri che avevo sempre visto dal basso slanciarsi verso il cielo. Non avevo la macchina fotografica quel giorno ma non tardai a rimediare alla dimenticanza.
Ormai ero riuscito a fondere le mie tre passioni: volo, archeologia e fotografia; riuscii anche a instaurare buoni rapporti con alcuni archeologi ai quali segnalavo le mie scoperte; a furia di insistere riuscii anche a convincerne uno a fare un sopralluogo in un sito che ritenevo interessante, fu un’esperienza illuminante; l’archeologo sembrava una sfinge mentre osservava i cocci che io avevo trovato e messo sopra le rocce, in modo da ritrovarli facilmente. Tutte le volte che gli chiedevo cosa ne pensasse rispondeva a monosillabi, sino a quando al colmo dell’esasperazione gli dissi: “Senti un po’, visto che ti ci ho portato io qui, mi vuoi dire che accidente di posto è?”. Mi rispose, nel modo più stringato possibile, che si trattava del secondo sito accertato (da lui in quel momento) dell’età del rame, nell’Alto Oristanese. Dopo quell’esperienza ed altre simili, capii che certi archeologi altro non sono che dei moderni corsari, con tanto di lettera di corsa emessa dall’Autorità, autorizzati a carpire tutte le informazioni senza doverne poi rendere conto a nessuno, e in perenne guerra di corsa anche tra di loro!
Chissà per quale miracolo, nel settembre del 2000 venne abrogato il divieto di portare in volo attrezzi da ripresa - ancora non riesco a crederci! - comunque questo mi consentì di fotografare liberamente durante i miei vagabondaggi aerei senza la paura di essere fucilato per spionaggio militare! Su richiesta di alcuni archeologi, eseguii delle riprese aeree di alcuni siti in corso di scavo, le mie foto furono molto apprezzate ma tutto finì lì; se e cosa abbiano contribuito a scoprire, i corsari non se lo sono mai lasciato sfuggire. Poi, un giorno del 2002 leggo la recensione di un libro: “Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta”; scritto dal giornalista di “Repubblica” Sergio Frau, sardo da parte di padre. Ne parlano bene: pare che abbia dimostrato che le Colonne d’Ercole sono nate nel Canale di Sicilia e che l’isola non trovata, quella di Atlante (ma sarà la stessa della canzone di Guccini?), sia la mia Sardegna!
Sono un po’ scettico: vada per le Colonne, ma su Atlantide ne ho sentite anche troppe! Però m’incuriosisce. Vado a comprarlo in libreria ma è finito, arriva tra una settimana, lo prenoto. Dieci giorni ed eccolo qua, inizio subito a leggerlo, è scritto in modo strano, uno stile tutto suo, che ti prende, ricchissimo di dati, fonti letterarie, geologiche, storiche; tante di quelle fonti che ne viene fuori un fiume in piena che, riversandosi nel Mediterraneo, provoca uno tsunami che spazza via antiche certezze e fa riapparire l’isola non trovata proprio lì, in mezzo al Mediterraneo, dove è sempre stata e mai nessuno l’ha trovata (Guccini mi perdoni!).
Un anno fa conosco Sergio Frau, alla presentazione del suo libro ad Oristano. Mi presento, parliamo un po’, poi gli dico delle mie passioni, mi sono portato appresso l’album delle foto e gliele mostro; gli piacciono! Ci scambiamo gli indirizzi e-mail e ci salutiamo. Dopo una settimana mi telefona, gli parlo di alcuni siti sconosciuti e gli chiedo se posso inviargli qualcuno dei pezzi che scrivo ogni volta che vado in giro per pietre. Perché no? Risponde lui, e così, ogni tanto gli invio qualche pagina del mio diario di archeoparapendista. Quel suo libro mi ha gasato! E’ un’indagine spietata che analizza meticolosamente tutti i possibili indizi, da quelli vecchi di millenni a quelli attuali. Ci sono tante cose nuove e tante altre che prima venivano solo sussurrate: i nuragici erano ottimi marinai, formidabili guerrieri, commercianti, artisti del metallo, i padroni del bronzo; lui lo grida, prove alla mano. Scopro anche gli effetti collaterali del suo libro, colpiscono soprattutto gli archeologi sardi, non tutti per fortuna, molti comunque, troppi! Parlare di Frau con loro è come mettere una croce di fronte ad un vampiro: si contorcono, recitano scongiuri e, a momenti, ti mordono sul collo! Poi, se non ti spaventi e continui a parlarci, scopri che manco lo hanno letto il libro maledetto! Un po’ li capisco, vedono Frau come un bracconiere che si è introdotto nella loro, personale, riserva di caccia fregandogli la preda migliore, poveretti!
Sono loro le uniche vittime dello Tsunami Frau! Gli effetti positivi sono molteplici: un risveglio dell’interesse e dell’orgoglio dei Sardi per la loro isola, denigrata e saccheggiata negli ultimi millenni; un riesame critico dei dogmi sulla civiltà nuragica, immutati negli ultimi cinquant’anni. Per quanto mi riguarda ci trovo tante conferme ad alcuni sospetti e altrettante nuove domande a cui cercare una risposta; scopro il libro straordinario di Vittorio Castellani: “Quando il Mare Sommerse l’Europa”, lo stesso libro che ha stimolato l’indagine di Frau e che, insieme al suo libro, mi ha fatto pensare a tutta una serie di collegamenti commercial-culturali tra la civiltà megalitica e quella nuragica. Forse sono cose già note, ma non è importante, quello che importa è che mi abbia portato a fare tutta una serie di ragionamenti, intuizioni, scoperte mie personali e a stimolare l’interesse di tanti semplici appassionati come me.
A febbraio Sergio mi parla di un suo progetto, una grande mostra fotografica che illustri il percorso delle sue ricerche; mi chiede di scattare delle foto dal mio paramotore, foto particolari dei nuraghi del Sinis, quei nuraghi coperti da una coltre di fango, testimonianza dello tsunami che - lui sospetta - un giorno del 1175 a.C. spazzò via la civiltà nuragica. A marzo compio due raid aerei nel Sinis di Cabras e in quello di San Vero Milis impartendo il battesimo dell’aria alla reflex digitale nuova di zecca, il bottino è ingente: decine di foto di nuraghi, i Giganti Abbattuti, così li chiama Sergio, io preferisco i Fantasmi del Sinis.
Dopo lunghi appostamenti e semidissanguato da stormi compatti di feroci zanzare, riesco anche a fotografare i Fenicotteri Rosa. Alcune di queste foto sono esposte nell’aeroporto di Cagliari-Elmas nella grande mostra: Atlantikà/Sardegna, Isola Mito. Immagini e testimonianze di una Grande Storia nascosta dalla Geografia. Mostra ideata e realizzata da Sergio Frau con l’aiuto di Giovanni Manca e tanti altri appassionati, fotografi, studiosi, parapendisti.
La mostra si apre con un’immagine che ti cattura: un enorme fotomontaggio che fa vedere a proporzioni ingigantite ma reali una nave nuragica (raffigurata in bronzetto) dalla quale è sbarcato sulla spiaggia un esercito di guerrieri (bronzetti).
Sembra un’istantanea di un reporter di guerra! E’ una mostra che con 140 foto di grande formato ripercorre la Storia, quella vera, della Sardegna-Tartesso-Scherìa-Isola di Atlante, con una ricchissima documentazione che spazia in varie discipline scientifiche. Una mostra costata un decimo di altre realizzate coi soldi pubblici, ma cento volte migliore. E che, non a caso, dopo Cagliari si trasferirà a Parigi nella sede dell’UNESCO, da cui ha ricevuto l’appoggio. Una mostra il cui titolo, nelle intenzioni dello Tsunami Frau, sarebbe dovuto essere la risposta alla vecchia domanda se i nuragici navigavano o no?. E lui: «Guardatevela bene questa nave e il suo equipaggio: voi che ne dite?».