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Considerazioni di Vittorio Castellani

venerdì 21 gennaio 2005

Pur se la Sardegna nuragica non mi era certamente ignota, la full immersion in quella realtà mi ha inaspettatamente portato in una nuova e ben più emozionante dimensione.

Certo, avevo già visitato il nuraghe di Barumini, restando impressionato dalla potenza della costruzione. Ma ora mi rendo conto che visitare un singolo nuraghe finisce col fornire una informazione deviante, a fronte di questa quasi inconcepibile realtà di un’isola per ogni dove turrita, presidiata - mi si dice - da oltre ottomila nuraghe. Di particolare rilevanza mi sono apparsi, a fianco dei noti nuraghe in ambiente “pastorale”, le numerose costruzioni che abbiamo visto ergersi presso le rive del mare, inattesi baluardi a difesa forse delle coste, certamente mute sentinelle di una storia che non è stata ancora scritta e che forse non lo sarà mai.

La mia prima reazione è quasi di dispetto: se una simile imponente e misteriosa evidenza fosse emersa in qualche luogo dell’oriente sarebbe probabilmente e da tempo al centro dell’interesse archeologico mondiale. Così come stanno le cose, i nuraghe mi sembrano declassati nell’immaginario comune a poco più di una banale attrazione turistica. E qui mi nasce un primo e contraddittorio problema. E’ stato detto, probabilmente a ragione, che non fa senso impegnarsi nel riportare alla luce più di poche unità dei tanti nuraghe disseminati per la Sardegna. Ma è peraltro vero che, se la struttura di un singolo nuraghe è di per sé ammirabile, solo il sistema di nuraghe rende pienamente conto della loro valenza storica e territoriale. A livello di libro dei sogni, vedrei dunque la scelta di alcune aree selezionate ove si possano restituire più strutture, collegandole nel loro contesto territoriale in una sorta di “Parco dei Nuraghe”.

Aggiungo, e questo non fa parte del libro dei sogni ma di una reale possibilità, che sarebbe utile operare a livello di immagine (editoria, documentaristica, etc) per far emergere questa Sardegna preistorica dal limbo in cui pare per molti versi ancora immersa. Penso al proposito all’ottimo lavoro fatto in tempi recenti nel Regno Unito, anche grazie ad organismi come l’English Heritage, per diffondere e popolarizzare i monumenti megalitici in quelle isole. Ne è risultata una catena virtuosa, in cui l’informazione e la documentazione si sono rapidamente coniugate con l’attenzione accademica per portare il fenomeno megalitico alla ribalta dell’immaginario comune, con grandi ripercussioni non solo sulla fruizione turistico-culturale dei monumenti, ma anche sul loro studio e la loro conservazione.
Passando alle problematiche, la prima e più immediata mi pare la vastità del fenomeno. Pallottino (La Sardegna Nuragica, a cura di G.Lilliu, p.102) stima che ai tempi la popolazione dovesse difficilmente essere superiore ai 150mila-200mila abitanti. Se tale stima fosse corretta, porterebbe a 1 nuraghe ogni 20-25 abitanti, donne e bambini compresi. Anche distribuendo i nuraghe, come ovvio, sull’arco di molte generazioni, la cifra pare oltremodo esigua, meritevole di approfondimenti. Al proposito - e se non è già stato fatto - sarebbe interessante applicare ben note leggi fisiche per valutare la forza lavoro necessaria per erigere un nuraghe, ricalcando quanto recentemente fatto con successo per valutare la forza lavoro necessariamente impegnata nelle piramidi egiziane. Sempre a questo riguardo, un problema di grande interesse mi paiono le tecniche costruttive che hanno consentito l’erezione dei nuraghe, tecniche quotidianamente e talora anche aspramente dibattute nel caso delle piramidi ma di cui non ho notizia per i nuraghe, che pur presentano non minori difficoltà. La soluzione più banale, ma anche più gravosa, sarebbe quella delle rampe di terra. Ma rampe sino alla cima delle torri? Con quanto aggravio per la forza lavoro? E nuove rampe per le riconosciute rifoderature di alcuni monumenti?
Un problema che al momento mi appare misterioso è lo stato generalizzato di distruzione e ricopertura in cui troviamo monumenti che, per la loro mole e fattura, sembrerebbe dovessero sfidare il tempo. Il problema è abbandono e successiva distruzione o, alternativamente, distruzione e conseguente abbandono? Penso che uno scavo mirato dovrebbe dare risposta a tale quesito (ignoro se non sia stata già data). Nel primo caso dovremmo trovare gli ambienti sotto il crollo essenzialmente spogli, talora con possibili tracce di riutilizzo. Nel caso di distruzione improvvisa (terremoto che abbia squassato l‘intera isola?) dovremmo trovare oggetti e anche vittime umane e/o animali. A mia conoscenza, l’unico indizio in tal senso sarebbe la (possibile) pila di fogli di sughero trovata nell’ambiente centrale di Barumini, andati peraltro subito distrutti. Ma per sciogliere il dilemma, sarebbero necessarie ben più solide evidenze.

Aggiungo che da uno scavo mirato di un opportuno nuraghe si potrebbero ricavare anche altre e preziose informazioni. Valutando, ad esempio, la volumetria dei massi non più in sito e ponendo, su questa base, stringenti condizioni sulle possibili ricostruzioni dello stato originale del monumento. Senza entrare in ulteriori dettagli, concludo richiamando ancora una volta il punto centrale che emerge dall’esperienza di questa full immersion nella preistoria della Sardegna: siamo in presenza di un grande ed importante momento della storia degli antichi popoli del Mediterraneo che merita di essere ulteriormente esplorato e che probabilmente attende di essere più compiutamente collocato nel quadro generale della preistoria europea. Un grazie a Sergio Frau e a tutti i compagni di avventura per avermi spalancato le porte di questo nuovo e interessante mondo.