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Gli Autori in mostra / La mia Sardegna. Fotogrammi d’infanzia, di Gianmario Marras

venerdì 21 gennaio 2005

Sono nato in una casa costruita proprio sopra un nuraghe, in un paese circondato da nuraghes. Poi la mia famiglia - quando ero bambino si trasferì a Milano - dove sono cresciuto, da qui l’inflessione da milanese e tutto il resto.

La mia Sardegna? Un bastimento carico carico di storie, di favole, di immagini e profumi, di poesie e suoni e melodie, che cominciarono a incantarmi probabilmente già con il duru duru che mia madre intonava tenendomi sulle ginocchia e quando, da bambino, negli anni ’60 arrivavo sull’isola per le vacanze.
L’estate al mio paese sembrava non finire mai.
Per le strade si spargeva profumo di pane e di legna e mio nonno Bachis, occhi azzurri e odore di sigari, mi incantava con i suoi silenzi. In casa sua conservava una raccolta di riviste illustrate che avrebbero fatto la gioia di un collezionista: annate e annate di “Epoca”, “l’Europeo”, la “Domenica del Corriere” capaci di tenermi per ore assorto in lettura. Forse è nata lì, così la mia passione per la carta l’inchiostro e la fotografia. C’era anche la bisnonna, Silvestra, che aveva superato i suoi novanta da un pezzo, pronta a raccontarmi storie fantastiche, favole, leggende arrivate da chissà dove. Frotte di ragazzini rincorrevano le auto con targhe del continente, le case sapevano di formaggio stagionato e c’erano i misteri attorno al paese: l’avventura di camminare sui resti di un nuraghe o di esplorare le grotte buie di una domus de janas diventata rifugio di pecore pastori e pipistrelli.
La Sardegna era il luogo dove potevo fare cose che in città non si facevano: camminare sul greto di un torrente, bere a una sorgente, andare in campagna sulla groppa di un somaro, arrampicarmi sugli alberi e seguire il volo di un falco, toccare, vedere, annusare, ascoltare. Del mare di allora ho solo ricordi vaghi: perlopiù sabbie, scogliere e ustioni alla pelle. Fra i romanzi delle vacanze ricordo una raccolta di racconti di Grazia Deledda a cui sinceramente non dedicai molta attenzione. Solo qualche anno dopo cominciarono a interessarmi le letture sarde con Dessì, Satta, Lussu, Ledda e molti altri: alcune furono letture folgoranti come “Banditi a Orgosolo” di Cagnetta o “Baroni in Laguna” di Fiori e “Sardegna come un’infanzia” di Vittorini. Quest’ultimo indimenticabile anche perché lo lessi in mezza giornata su uno scoglio circondato dal mare di fronte a Tharros prima di un tuffo nelle acque immobili del suo mare interno.
Era il periodo dell’adolescenza, quello delle lunghissime estati al mare, cento giorni di vacanza sempre sulla costa occidentale fino al sud, fra le insenature di Malfatano e Spartivento. Si percorrevano strade bianche che portavano a spiagge solitarie belle da togliere il fiato: scoperte da raccontare agli increduli amici milanesi fino al punto di doverceli poi portare, sull’isola, zaino in spalla, a camminare sugli altopiani, a rincorrere treni, a dormire sotto le stelle, a fare incontri straordinari dal Supramonte al mare. Noi, ragazzi metropolitani imbambolati da Kerouac, vivevamo la nostra indimenticabile “On The Road”, come se avessimo la consapevolezza inconscia che di lì a poco tutto sarebbe scomparso.
Giuseppe Dessì uno dei più importanti scrittori sardi del Novecento parlando della Sardegna la disse “un paese completamente diverso, arido come la luna, ma che però ha un’altra faccia che gli uomini non hanno mai visto”. Quei suoi paesaggi antichi, biblici, virgiliani erano davvero ignoti alla maggioranza. Rarissime le fotografie circolanti, perfino sui periodici di viaggio che cominciavano a comparire con carte patinate nelle edicole dei primi anni ’80. La Sardegna - vista dal continente - era sempre la stessa: quella del malessere del disagio e dei sequestri contrapposta a quella principesca della Costa Smeralda.
Un’isola semplificata: senza storia e senza geografia.
Per me, invece, era il luogo dei grandi spazi, il luogo della fantasia da esplorare e da scoprire. Ci sono 2000 chilometri di costa in Sardegna ricamata nella sabbia e nel granito, ci sono montagne, pianure, altipiani, fiumi con acque che ribollono, cascate e stagni dove si può vedere il volo dei fenicotteri al tramonto. E ci sono valli, dirupi, cascate, grotte che si infilano per chilometri nelle viscere della terra e alberi millenari in foreste impenetrabili, e centinaia di paesi ognuno con la sua festa il suo abito tradizionale, il suo canto, perfino il suo pane... E poi i segni nelle pietre e delle pietre: a migliaia, come a far da sentinella a tutto il territorio.
Bastava premere il pulsante di scatto - fotografare - per mettere una cornice a quello che nella tela era già stato dipinto. Fotografare per fermare quella realtà almeno in un’immagine: la prova che quel luogo davvero esisteva - almeno in quel momento - e io l’avevo visto.
In Sardegna trovo tutti i paesaggi del mondo.
E nel mondo ritrovo spesso la Sardegna.
Cercare il paragone è il metodo che mi aiuta a fotografare meglio ovunque mi trovi. Così la California rurale assomiglia al Logudoro; le colline della Cornovaglia sono quelle della Marmilla a primavera; il mare e i graniti delle Seychelles diventano Gallura...
Penso che abbia ragione Bill Holm, saggista e poeta, quando scrive che “per quante macchine possiamo inventarci a farci da guida sono sempre i nostri antenati”. Credo sia uno dei motivi per cui il soggetto preferito delle mie fotografie è diventato la Sardegna, i suoi paesaggi, abitanti, tradizioni, feste, tutto costituisce una fonte continua di ispirazione che si trasforma in centinaia di immagini e storie che ho pubblicato in tanti servizi. E se sono davvero le nostre memorie e i nostri sogni a farci progredire, be’ allora il mio incontro con Sergio Frau e le sue Colonne d’Ercole non è stato casuale: le mille storie sull’isola mito io le conoscevo, anzi eravamo in tanti a conoscerle, perché sono le pietre a raccontarle.
Camminateci dentro ad un nuraghe. Raggiungetene la cima. Osservate da vicino la squadratura dei suoi blocchi. Entrate nell’oscure cavità di una domus de janas. Sfiorate con le dita le spirali della vita scolpite sulla roccia. Guardate negli occhi un antico guerriero rappresentato nei bronzetti. E riuscirete a percepire la voce di quelle pietre che parlano di un passato mitico.
Qualche archeologo lo aveva sussurrato ma è stato Sergio Frau, professione giornalista, a dirlo ad alta voce. Lui i cocci di questa storia andata in frantumi a rimetterli insieme c’è riuscito: e il quadro è ritornato chiaro, la visione nitida. E allora io li ho visti i misteriosi e terribili Shardana mentre solcano le onde capaci di arrivare con le loro navi fino agli estremi del Mar Grande, capaci di forgiar metalli e creare una rete di commerci fino a Cipro e Biblos, abili costruttori, conoscitori dei segreti della pietra e del metallo tanto da venir assoldati in Israele per edificar fortezze e poi, anche, temibili guerrieri tanto da formare un corpo scelto alla corte del faraone... Si, c’è riuscito Sergio Frau a farmi immaginare quel porto nuragico giù a Nora dove anche i Cartaginesi ed i Romani trovarono riparo prendendoseli poi tutti i meriti di tanto ardire costruttivo.
Finalmente si prendevano la rivincita i nostri Antichi, con quelle storie sparate in doppia pagina su Repubblica nella calda estate dell’Italia vacanziera del 1999 ed anche senza ufficio stampa erano tornati alla grande per raccontarci storie e sogni.
E il libro di Sergio Frau che ha fatto riapparire la Sardegna come Isola di Atlante oltre le Colonne d’Ercole, le prime, però, figlie della glaciazione würmiana, con il fango e i bassi fondali nello stretto di Sicilia che divideva in due il Mediterraneo.
Prezioso, importante, necessario.
Macchè! Roba da far venir la pelle d’oca solo a vederlo in quella libreria ad Alghero nell’aprile 2002: quel malloppo di pagine, fitte fitte di mappe, notizie, interrogativi, garbugli di indizi annodati che ti risucchiano come un vortice, in un mare dove non si finisce mai di nuotare, anche perché, ogni tanto, si alzano le onde e le correnti tentano di portarti chissà dove. Ma siccome io lo sapevo accetto la sfida. Tanto più dopo che Sergio Frau mi ha invitato su “Atlantikà”, la simbolica nave nuragica che porterà in mostra immagini e storie per farla vedere a tutti l’Isola Mito con le sue strabilianti meraviglie.
Io a bordo ho portato le mie fotografie. Solo alcune fra le tante realizzate. Ma il viaggio è appena cominciato e si preannuncia lungo, avventuroso e pieno di sorprese.