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Dietro Atlante e il suo mito il vero dna della Sardegna..., di Ignazio Pinna

venerdì 21 gennaio 2005

Per me era l’ennesima gaffe con Sergio: perché il titolo Atlantikà con l’accento sulla a finale?
Ma perché si parla di vicende ed altro, quindi di cose, sull’Isola di Atlante: è il plurale dell’aggettivo neutro atlanticon1.

Non è persona che si possa cogliere facilmente in fallo, almeno dal lato culturale. La sua bonomia impreziosisce ed ammanta di fascino un bagaglio di conoscenze ed esperienze culturali, poliedriche, tutte profonde, perché approfondite con la puntigliosità del curioso insaziabile. Non potevo certo avermene a male e non solo perché aveva ragione ma sopratutto perché le sue correzioni sono spontanee, semplici, piacevoli ed attese. Non ti corregge, ti suggerisce, quasi lo facesse a se stesso nella indomabile ricerca di qualche aspetto non ancora rivelato.
Anche indomito si rivela a me che ho avuto modo di conoscerlo da vicino anche se non da molto tempo. L’idea di partecipare, con immagini e didascalie, il suo convincimento presumo l’avesse già prima di scrivere il libro “Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta”, deve poi averla definita durante la scrittura, ma l’ha concretizzata ora a distanza di qualche anno, dopo aver subito anche attacchi insulsi e scomposti non certo da persone illuminate, ma sopratutto dopo aver avuto il riconoscimento dell’intuizione affinata da parte di studiosi, questi sì illuminati, anche perché consci di non dominare tutto lo scibile ed ansiosi di scoprirne di nuovo.
Onestamente non ritengo di poter presentare meglio di lui la mostra che lui ha ideato, la Sogaer ha ospitato presso l’aeroporto Mario Mameli di Cagliari-Elmas, la Presidenza appena trascorsa del Consiglio della Regione Sardegna, nella persona dell’on. Efisio Serrenti, ha sposato da subito con un provvidenziale sostegno economico ed il club Rotary di Quartu S. Elena ha adottato quale indiscutibile ed insuperabile veicolo di cultura e di rivalutazione socio-economica, ma non solo, della nostra Isola. Perché la mostra - che, come il libro, restituisce le primissime Colonne d’Ercole al Canale di Sicilia permettendo di guardare al nostro Mediterraneo occidentale come vero Far West mitico dei Greci più antichi - illustra proprio il vero dna della Sardegna, un dna che proprio per essere tale, rimonta al periodo più formativo, creativo e felice della nostra gente, si è forgiato in quelle esperienze, quelle del suo periodo più glorioso. Quando non c’era necessità di pettinare 2 le spiagge, perché erano belle per natura e nessuno le deturpava o violentava: i valori erano ben altri, a sentire Platone e quanto Sergio Frau dapprima insinua ed oggi rivendica. E ne ha ben donde: la stessa Unesco ne riporta la tesi nella sua rivista di studi filosofici, Diogène, ed ora lo convoca a Parigi perché altri, interessati, curiosi di una sana curiosità, possano addentrarsi in fatti che nessuno sospettava e che scombussola tutti, lo stesso equilibrio del conosciuto, in termini di storia e di geografia.
Mario Tozzi
lo dice esplicitamente: occorrerà riscrivere la storia e con essa la geografia o meglio a motivo di quest’ultima. E non solo: c’è anche la geologia, quella che pur a scala ben maggiore di quella umana è tale comunque da intervenire nel decorso della storia della nostra specie (e non solo, ovviamente!), con eventi che sono piccoli se rapportati alle sue abitudini ma infinitamente sconvolgenti se riferiti ai nostri eventi. E’ il caso di Pompei e del Vesuvio, di Messina e dell’Etna, di Atlantide-Sardegna e dello schiaffo di Poseidone, delle conseguenze della deriva dei continenti. Un maremoto, un sisma che nasce in mare, lo perturba, lo carica e lo scaglia sull’Isola Felice, troppo felice perché gli dei le permettano di persistere nel suo stato. Ma allora erano gli dei, dico io, e forse se lo potevano permettere, oggi ci sono altri che pretendono di cambiarci ancora, di sminuirci ulteriormente, di tenerci soggiogati, soprattutto culturalmente. E poiché la cultura è alla base della conoscenza - è la conoscenza stessa, è il bagaglio di cui ciascuno è dotato e che ciascuno può e deve tenere in continuo arricchimento qualitativo - si capisce pure come ci sia stato e continui ad esserci chi lo impedisce. E non sempre per disegno razionale, perché ciò implicherebbe che chi lo fa è anch’esso dotato di un bagaglio non trascurabile, ma spesso è per pura viltà intellettuale, per assente creatività, per paura di ciò che non si conosce e che potrebbe alterare lo status quo e quindi porre a rischio il controllo sullo stato esistente.
E’ quindi imprescindibile che noi che, come dice Sergio Frau, siamo consci della ricchezza della nostra terra, e non certo e solo di quella strettamente materiale, si faccia valere tale patrimonio, non lo si svenda ed a tal fine ci si unisca, sconfessando l’assioma - ma non per tutti - dei pocos, malos y mal unidos. Non svendendo il territorio, i nostri costumi, non limitandoli e circoscrivendoli a sagre non sentite, pretendendo ciò che ci compete, il prezzo del disturbo, prezzo che rende più attento chi altrimenti è portato a disturbare.
Anni addietro quando mi muovevo, con anormale e piacevole frequenza, da un continente ad un altro, per ragioni formalmente e contrattualmente di lavoro ma con l’entusiasmo di un indomabile curioso, fortunato per le opportunità che mi si offrivano, mi domandavo come mai le isole dei Caraibi pretendessero la tassa d’ingresso all’arrivo o in aeroporto o al porto, come pure lo facesse e faccia tuttora l’Egitto e tanti altri paesi che non cito perché sono tanti, la maggioranza! Me lo domandavo all’inizio, stupito, perplesso, abituato per imposto e scontato soggiogamento ad offrire, ad essere ospitale, ignaro che la mia ospitalità era vista come un diritto dagli estranei che si guardavano e guardano bene, nella media, di ricambiare con analoga moneta. Poi mi andavo rendendo conto che era giusto che si richiedesse una tassa di soggiorno, che si riscuotesse la contropartita al consumo del nostro territorio, in termini di servizi resi e di danni arrecati, perché il bene non è solo visto: è anche utilizzato e consumato.
Dobbiamo insomma salvaguardare il patrimonio della nostra Isola d’Argento, ricca di minerali, che anzi può andar fiera di annoverare tutti quelli più importanti, specie nel bacino del Sulcis, di tradizioni che ancora permangono, di qualità altrove ormai irrimediabilmente persa. E non solo da oggi se i Greci ne avevano un concetto tanto alto da individuare in essa il paradiso in terra, una terra felice, prospera, pacifica e rigogliosa. E non solo per l’ossidiana, il rame, poi il bronzo e, perché no, secondo recenti intuizioni, forse anche la scoperta del ferro: dobbiamo riaprire la finestra che Poseidone ha chiuso su un mare di bellezza.
Clara Murtas
ce li ricorda, questi concetti, con la lettura di un brano de “Le Colonne d’Ercole”: ma non direttamente ed in termini brutali o terra-terra. Chi ha sete di conoscenza ben venga nel gruppo di chi vuole procedere, chi non ne ha ed anzi la rifiuta, avrà modo di rendersene conto. Quindi, insistiamo, la schiera è già folta, ma altri ed altri ancora andranno a rimpinguarla, sino a che i nostri bagagli culturali saranno arricchiti anche della sana consapevolezza dell’equilibrio tra le diverse realtà, quindi dei nostri diritti calpestati.
Ci vuole del tempo...
Il processo è lento... dice qualcuno a Frau che non gli risponde infastidito, ma sì deciso: la vita è una sola e corta ed io voglio vedere quanto auspico prima che finisca. Sono molti secoli che non ci siamo ancora scrollati di dosso la paura del mare, che pur eravamo avvezzi a gestire, ad averlo come amico: ma l’Onda di Poseidone no, essa non la potemmo gestire, ci debellò, ci annullò i simboli del nostro benessere e del nostro vivere felice, ci costrinse a ripiegare sui monti, verso l’alto, dove permarremo per molto e vi ritorneremo quando la malaria si sostituirà allo tsunami per scoraggiarci ancora una volta dal convivere con il Regno di Nettuno. Oggi siamo di nuovo vicini al mare, abbiamo ripreso anche la cucina del mare, varie immigrazioni successive all’ XI secolo a.C., di popoli che venivano per mare ci hanno portato ancora paura, insensata paura, con qualche accenno di novità che non ci ha riscattato e che solo ci fa tollerare la sovrapposizione. E noi la subiamo, subiamo la raffinazione del petrolio in un angolo di costa glorioso, ne ricaviamo ben poco, ci costa molto, meno ancora dalla chimica, per non parlare dell’estinta Cassa. E i nuraghi, con il loro corredo di basi di pinnette, di tombe maestose, di circoli e di fonti sacre ed altro, rimangono per lo più ancora coperti a ricordarci l’antica punizione, perché così fu percepita. E chi viene in Sardegna e non la conosce non bada a quei resti affioranti o vagamente indicati: sembrano pietre di nessun valore, quasi si confondono con i cumuli di spietramento, numerosi anch’essi in una terra vulcanica antica, la più antica, quella che ha subito non poche costrizioni geologiche e di non poco conto e di altre continua a essere oggetto, nel suo ondeggiare trasversalmente su un asse circa nord-sud, scoprendo un lato e coprendone un altro. Così che Nora, ora, è sotto eppure era sopra il livello del mare ai tempi della sua storia di quasi venti secoli addietro, mentre fuori sono le grotte di Calagonone dove innumerevoli foche monache devono aver vissuto la loro esistenza forse per millenni, convivendo anche d’accordo e d’amore con la particolare forma di eustatisìa dell’Isola.
Attilio Mastino,
archeologo e prorettore dell’Università di Sassari, non entra nel merito delle vicende geologiche, non è sua materia. Ma entra, invece, ed in dettaglio sui giornalisti del passato: parla di Platone, del mito di Eracle, dell’erba velenosa che caratterizzava la mitica isola e che ben è presente in Sardegna: è l’euforbia, sa lua, quella con cui si pescano i pesci addormentandoli quindi rendendoli alluaus, intontiti come coloro che rifiutano la novità, specie se essa può far crollare la labile struttura del loro scibile circoscritto. Ci cita direttamente in latino dei passi classici: é l’isola più grande al di là delle Colonne e da essa si accede ad altre isole e tutte le comprende nel suo sereno e felice convivere. per molto tempo le colonne d’Ercole, come la bandiera sulla luna, ad indicare il limite del conosciuto, stavano nel Canale di Sicilia, perché in esso, come diceva il compianto Sabatino Moscati, i Fenici le avevano ubicate per limitare lo scorrazzare dei Greci al solo Mar Ionio.
E’ rotariano del club di Sassari, Mastino. Ed è quindi doppiamente felice della mostra: oltre a gioire della felice intuizione che dà lustro alla nostra Isola, è orgoglioso che il Rotary l’abbia adottata. Ma c’è una ragione ulteriore di orgoglio e ce la illustra con pacata euforia: l’Unesco ha invitato formalmente gli organizzatori della mostra a presentarla presso la loro struttura di Parigi, unitamente all’Università di Sassari. E’ proprio un bel colpo: la Sardegna sta entrando finalmente nella ristretta cerchia delle pluridecorate civiltà del passato. Sta, insomma, acquisendo visibilità. L’uditorio non trattiene un soffocato ma di intenso timbro baritonale mormorio di approvazione ed entusiasmo.
Perché i presenti
all’inaugurazione della mostra la Sardegna la conoscono ed ora ne vanno ancor più orgogliosi, assentono, convinti e commossi, gli interventi smozzicati ma incisivi di Sergio che irrompe tra un saluto e l’altro dei convenuti in rappresentanza dei patrocinatori, per rimarcare un punto, richiamarne un altro e chiarirne il concetto e senso vero. Come quando chiarisce che gli Etruschi erano i Sardi che avevano abbandonato l’Isola per insediarsi in terre nuove, per sfuggire alla maledizione di Poseidone, alle stigmate del suo schiaffo. Vi fondano città ma si soffermano sulle necropoli e queste permangono ad incontrovertibile testimonianza dell’origine di quelle genti: un mirabile accostamento di due foto aeree in altrettanti cartelloni della mostra, quasi una visione sinottica, ci mostra l’insediamento del nuraghe di Barumini con il suo contorno di pinnette con l’elevato scapitozzato come appare oggi a scavo effettuato e, proprio sotto quell’immagine aerea, la necropoli etrusca di Cerveteri, la Banditaccia fotografata dal cielo, che ce lo ricorda quando ancora era ricoperto di fango consolidato. I Sardi emigrati sulla penisola di fronte alla Corsica che pur doveva essere loro dominio, morendo volevano così ritornare, reintegrarsi nella terra d’origine: non la rinnegavano, anzi la vedevano comunque e sempre come la residenza definitiva per un’altra vita serena.
Molte sono le immagini e tutte significative, qualcuna con un messaggio subito evidente, altre intriganti e che ti inducono a soffermarti, ad approfondire e riflettere e poi gioire con la raggiunta soluzione. C’è il fantino acrobata ardito dell’Ardia che cavalca a pelo ed in piedi ed è visto con una istantanea a tempo corto ed accompagnamento di macchina per rimarcarne la corsa spericolata ed a fianco gli si appone l’immagine del bronzetto del cavaliere del passato: ma sono identici, il messaggio è immediato ed esplicito, nulla è cambiato: c’è ancora in Sardegna chi ama essere positivamente balente.
Ma ci sono anche le foto di diversi corridoi a sezione ogivale che appaiono usciti dalla stessa mente ed eseguiti dalle stesse maestranze, ma che non sono tutti in Sardegna: il primo è ripreso dal nuraghe Losa, gli altri provengono da monumenti del passato della Grecia, della Turchia e, i due finali dall’ Etruria. Ed al riguardo Sergio ci richiama sull’importanza dei numeri: 8000 e più nuraghi censiti in Sardegna e moltissimi con tali corridoi e cupole. E di queste tipologie ve ne sono moltissime di meno pur in tutto il Medio Oriente, pochi esempi di accenni di nuraghi in Corsica ed in medio Oriente: ergo, se i numeri contano, è logico pensare che l’origine sia dove i numeri vincono e non già il contrario.
Poi il Prefetto ed il Questore, vista la mostra ed acquistato il libro, reclamano l’autografo di Sergio Frau su di esso e lo cercano. Lui, come preoccupato: Prefetto e questore? Perché mi cercano... Nel caso sono pronto a rimettere subito le Colonne a Gibilterra...Insomma: non voglio guai...! E’ ovvio che scherza, ma ciò fa parte della sua natura, rilassarsi dalle fatiche della ricerca con autoironia... E parlando di esse con semplicità, per esserci ormai abituato a farlo traendone indiscutibilmente piacere, ma risentendone. E’ impegnato con i giornalisti che, per esserlo anche lui, intrattiene con dovizia di particolari, di curiosità, quasi scrivendo per loro l’articolo. Poi riesco a distoglierlo ed a portarlo verso chi lo reclama e lui appone autografi sui libri: Nome?...La avverto: è un po’ palloso, specie la prima parte... Ma abbia pazienza e perseveranza...
C’è anche il padre di Attilio Mastino, è anziano solo di anni e non di aspetto, né tanto meno di mente. Ci tiene a conoscere Sergio, si complimenta con lui, anche lui ha una citazione da fare a conforto, se mai ancora ce ne fosse bisogno, della tesi che fa della nostra Isola l’Isola mitica di Atlante.
E c’è anche un rinfresco o meglio uno spuntino a base di salsiccia, formaggio e pane carasau con dell’ottimo vino di Serdiana: non dovevano essere molto diversi gli spuntini del passato. Anche un tipo di pizza che esclude i pomodori ma inserisce la pancetta e la crema di formaggio su una sfoglia spessa potrebbe benissimo essere stata apprezzata dai nostri antenati dei nuraghi. Insomma, c’é di che essere orgogliosi e non poco di appartenere a tanta Isola e ciò ci induce l’imprescindibile dovere di salvaguardarla, proteggerla dai numerosi assalti che ancora si susseguono pur non riuscendo ancora a prostrarla. Io ne sono cosciente e con me gli amici del mio club Rotary di Quartu e con questi, ne sono convinto, i rotariani di altri club e tutte le persone di buon senso.
1. Come le “Geographicà” di Eratostene o le Storie Greche, le “Ellenikà”, di Senofonte.

2. Riprendo di proposito alcuni termini usati da Sergio Frau e che sposo proprio perché oltre a condividerli, li voglio fare anche miei e per sempre.

3. Mi dice Sergio: l’Isola di Atlante ha una sua solida realtà quanto la Roccia di suo fratello Prometeo al Caucaso. Vero uno, Prometeo; vero anche l’altro: Atlante in mezzo al mare..